La grande truffa nel serbatoio
Siamo già dei “fossili viventi” in termini di trasporto?
Noi della generazione della benzina e diesel, che vede profilarsi a breve, brevissimo, una nuova epoca della mobilità, assai diversa dalle nostre abitudini quotidiane? Il grande inganno ha il sapore del tradimento globale da parte della potente industria delle auto, che ci ha reso “cornuti e mazziati” con gli scandali venuti a galla recentemente – e non è finita qua – che gettano ulteriori preoccupazioni sulla salute pubblica globale.
In auto, ricordiamocelo, arriviamo fino al camposanto. L’Italia detiene poi il triste primato europeo di morti dovuti allo smog, ben 90 mila. Cifre da guerra, in cui siamo tutti in prima linea, come artefici e vittime. Noi, generazione cresciuta a pane e automobili siamo ora disorientati e beffati. “Educati e nutriti” dalla pubblicità di modelli sempre più performanti e grandi. Siamo quelli dello status simbol della macchina, che negli ultimi tre decenni hanno visto una smisurata crescita di veicoli nelle strade, senza preoccuparsi delle conseguenze.
“Nostra culpa. Nostra grandissima culpa”, noi che credevamo nel diesel “verde”, che ha generato gli “Euro 2, 3, 4, 5 …”, raccomandando ai figli di “comprare l’auto a gasolio, perché risparmiavano e avevano prestazioni!”. Il grande inganno dell’auto è stato finalmente smascherato.
Si sono inventati la rottamazione per favorire quello che oggi è un “peccato mortale”. “Il diesel è morto” e ora rischiano di “morire” le case automobilistiche che non si adeguano alla grande rivoluzione. La grande truffa del secolo, ci sta presentando il conto: lo scandalo dieselgate riguarda circa 11 milioni di automobili solo per la Volkswagen nel mondo (la maggior parte in Europa, dove i motori a gasolio sono più diffusi). Negli Stati Uniti il costruttore è obbligato a ricomprare le auto e a risarcire i clienti. E da noi? Da noi c’è ancora chi finge di non vedere e capire. Chi scrolla le spalle, senza reagire e capire. Capire che siamo parte di un immenso gioco d’interessi, nel nome della “libertà di movimento”. Ma fino a che punto?