Se la fede non è oggetto di pensiero non è fede
Si crede in Dio perché non ci si rassegna all’assurdo, al nulla, al non-senso. Ed è lecito nutrire una speranza di senso.
Secondo Norberto Bobbio, invitato dal card. Martini alla “Cattedra dei non credenti” nel 1990, «la differenza rilevante non passa tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti», intendendo la distinzione tra chi si pone le domande esistenziali (da dove vengo, dove vado, che senso può avere il mio esserci) e chi no.
Con la parola “pensiero” non intendo quell’aspetto puramente razionale, logico-verbale della nostra mente, bensì quel “cuore”, che in senso biblico è la fucina in cui convergono tanti materiali grezzi e da cui nascono discernimento e decisioni.
Mi sovviene la figura di Hanna Arendt (1906-1975) che ha enucleato il concetto di “banalità del male”: il vero male è la nostra non attenzione, il non far caso, l’evitamento della fatica del pensiero, poiché pensare davvero significa rendersi conto di tante cose: del proprio limite e della necessità di ascoltare e ringraziare (in tedesco denken-pensiero, ha la stessa radice di danken-ringraziare).
Questo significa pensare. Il pensiero è strettamente correlato al desiderio e all’attenzione.
E solo dall’esercizio di questo pensiero, dalle sue profondità, può scaturire un agire amorevole, compassionevole. Se una persona non ha mai messo in discussione i presupposti su cui basa la propria vita, se non si è mai confrontata con le domande di senso fondamentali, il suo pensiero sarà estremamente “povero”, la sua azione estremamente banale ed egoistica.
Ritengo che tutto questo abbia a che fare con la fede. Condivido con sant’Agostino che «credere non è altro che pensare assentendo», per cui la fede, se non è oggetto di pensiero, non è fede.
Questa prospettiva si ritrova in tanti altri autori, tra cui Origene, Anselmo, Tommaso d’Aquino, Dante, Cusano, Rosmini, Simone Weil, Karl Rahner, Hans Küng, Panikkar e in genere tutto il cristianesimo umanistico. È interessante chiedersi a cosa dice di sì (assentire) chi crede.
Si crede in Dio perché non ci si rassegna all’assurdo, al nulla, al non-senso, perché si vuole far confluire la propria vita in qualcosa di più grande e di più importante del proprio ondivago ego psichico. È lecito coltivare una speranza di senso senza tradire la natura di esseri pensanti, non rinunciando alle domande, al dubitare, sostando nelle aporie, coinvolgendo la ragione al punto tale da inebriarla col “presentimento del mistero” – come ebbe a dire don Giussani.
Così, con un’altra bella immagine di Giovanni Paolo II, fede e ragione possono, come le due ali di una colomba, far volare lo spirito. I monaci antichi ci hanno lasciato una preziosa eredità. I loro scritti costituiscono la testimonianza del loro stesso combattimento contro i pensieri negativi che sprofondano l’uomo nello smarrimento e lo tormentano. Essi ci insegnano a discernere i pensieri che ci abitano e a fare affidamento su Dio, decidendo di concentrare l’attenzione su di Lui.
Evagrio Pontico (345-399) ci invita a evangelizzare i pensieri malvagi, suggerendoci un metodo pratico, molto bello, di incidere sulle nostre schede mentali: consiste nell’imparare a identificare i pensieri che abitualmente ci invadono e ci turbano, nello scriverli e, a ciascuno di essi, rispondere con un pensiero tratto dalla Bibbia, ad esempio il versetto di un salmo, in modo da convertirci al «pensiero di Cristo» (1 Cor 2,16) e cominciare a vedere ogni persona, compresi noi stessi, con lo stesso sguardo Suo.
Consigli di lettura: Vito Mancuso, Il bisogno di pensare, Milano, Garzanti (2017). Anselm Grün, Terapia dei pensieri. Brescia, Queriniana (2004).
Monica Cornali