Venezuela: si riaprono le frontiere, ricomincia l’esodo. L’impegno della Chiesa colombiana
Con la riapertura della frontiera tra Colombia e Venezuela è ricominciato l'esodo massiccio dei profughi che fuggono dalla povertà estrema e trovano l'accoglienza della Chiesa colombiana. Parlano mons. Misael Bacca Ramírez, vescovo di Duitama - Sogamoso, responsabile della Conferenza episcopale colombiana per le migrazioni e padre Yovanny Bermúdez, direttore del Servizio gesuita ai rifugiati (Jsr) del Venezuela
Impressionanti e al tempo stesso già “vecchi”. La notizia, diffusa venerdì dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e dall’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), che è stato sfondato il muro dei quattro milioni di venezuelani che hanno lasciato il Paese a partire dal 2015, è coincisa con la notizia della riapertura della frontiera tra Colombia e Venezuela, anche se solo per i pedoni.
“Assalto” alla frontiera riaperta. La decisione di Maduro ha così provocato un nuovo esodo nel fine settimana, quando almeno 15mila persone hanno varcato il confine, mettendo a dura prova le strutture di accoglienza colombiane, soprattutto nella città frontaliera di Cúcuta, come conferma al Sir il vescovo della diocesi colombiana, mons. Víctor Ochoa Cadavid: “L’apertura era attesa dai venezuelani, che erano costretti a passare per gli accessi illegali, anche se qui c’è chi ha continuato a passare per i ponti internazionali. Sabato, dopo la notizia, l’afflusso è molto aumentato. Si sono formate lunghe code perché il passaggio è largo un metro, visto che sono ancora sulla strada i container che sono stati messi nei mesi scorsi per bloccare l’arrivo degli aiuti internazionali. Le strutture di assistenza e accoglienza hanno aumentato il loro servizio, sabato abbiamo distribuito 6.500 pasti e 1.500 colazioni. Siamo veramente in una situazione di emergenza”.
Insomma, il fenomeno dell’emigrazione dal Venezuela non conosce soste e anzi si rafforza di giorno in giorno. Basti pensare che in soli sette mesi, dal novembre 2018, il numero degli emigrati venezuelani sia cresciuto di un milione di unità, dai 3 ai 4 milioni.
Secondo le due organizzazioni, la maggior parte dei venezuelani si ferma in Colombia (1,3 milioni). Seguono Perù (768mila), Cile (288mila), Ecuador (263mila), Brasile (168mila) e Argentina (130mila).
Ma lo stesso, comunque altissimo numero relativo alla Colombia è in realtà sottostimato, come spiega al Sir mons. Misael Bacca Ramírez, vescovo di Duitama – Sogamoso, responsabile della Conferenza episcopale colombiana per le migrazioni: “Sono di più rispetto al numero di un milione e 300mila, molti evitano di registrare il proprio ingresso non avendo i requisiti per essere regolarizzati. Durante il periodo di chiusura della frontiera è aumentato il flusso nei punti senza controllo ufficiale e, invece, controllati da gruppi armati al margine della legge. In questo modo peggiora la situazione di vulnerabilità dei migranti e rifugiati, che sono sottomessi a dinamiche di economie illegali, come il narcotraffico, il contrabbando, il traffico di armi, la tratta di esseri umani”.
Tanti giovani e mamme lasciano il Paese, molti minori restano soli.“Confermo che anche secondo le nostre stime il numero di chi lascia il Paese continua ad aumentare – dice al Sir padre Yovanny Bermúdez, direttore del Servizio gesuita ai rifugiati (Jsr) del Venezuela -. Il Paese è al collasso e andarsene appare come l’unica possibilità per migliorare la propria vita. Il fenomeno continua a lasciare aperta la questione sul sistema di protezione che possiamo garantire a queste persone”.
Non esistono statistiche ufficiali aggiornate sull’età media e il grado d’istruzione di chi emigra. “Ma posso dire – prosegue il gesuita – che si tratta soprattutto di giovani e di donne, spesso con basso livello d’istruzione.
I giovani perché non vedono alcuna possibilità di futuro rimanendo qui in Venezuela. Le donne perché hanno fame e sperano di guadagnare qualcosa per far mangiare i loro figli, per dare loro qualche prospettiva. Intanto, però, molte donne sono costrette a lasciare da soli qui in Venezuela i loro figli, si tratta di un problema molto rilevante, che siamo chiamati ad affrontare. Aumenta il numero di bambini che vivono soli, abbandonati, che non vanno a scuola”.
Dalla Chiesa colombiana “tutte le azioni solidali possibili”. Gli effetti del gigantesco esodo si avvertono non solo in Venezuela ma anche nei Paesi d’arrivo, a cominciare dalla Colombia, sempre più messa a dura prova. Prosegue mons. Bacca: “Questi flussi migratori si sommano a quelli interni, dato che la Colombia sta ancora superando la crisi umanitaria dovuta a decenni di conflitto armato. Le due crisi si sommano creando una forte crisi umanitaria, per la quale non si vede una rapida soluzione”. La risposta della Chiesa colombiana è stata comunque sollecita e diffusa in tutte le 76 giurisdizioni ecclesiastiche del Paese.
“Lungo i quasi 2.200 chilometri di frontiera tra Colombia e Venezuela le diocesi più coinvolte hanno messo in atto tutte, sottolineo tutte, le azioni solidali possibili, fino a rischio di superare la propria capacità di risposta” prosegue il vescovo, che aggiunge: “E’ necessario trovare alternative in grado di alleviare la pressione delle comunità, dei governi locali e delle diocesi di frontiera, per poter concretizzare azioni integrali. Nonostante la collaborazione con le Nazioni Unite e le organizzazioni non governative, la situazione va al di là di qualsiasi capacità di risposta”. Le preoccupazioni sono varie: “Anzitutto siamo preoccupati per lo sfruttamento di giovani e bambini”, spiega mons. Bacca. E poi, c’è la situazione dei molti bimbi figli di venezuelani nati in Colombia, che sono senza cittadinanza. Ancora, “vanno elaborate strategie di inclusione e integrazione possibili. Questa è una crisi lunga, non mi pare ci possa essere una rapida soluzione”.
Al primo posto le necessità di base. “Sono stato da poco alla frontiera tra Colombia e Venezuela e il ritmo di uscita dal Paese è impressionante – spiega Marco Rotunno, responsabile dell’ufficio comunicazione dell’Unhcr Italia -. Ero al confine settentrionale, nel dipartimento colombiano di La Guajira e ogni giorno entravano 600-700 persone in modo regolare”. La prima preoccupazione, di fronte a queste persone che arrivano, “sono le necessità di base, dare loro alimentazione, un tetto, assistenza sanitaria”.
C’è poi quella legata alle sacche di delinquenza, irregolarità, tratta e contrabbando al confine tra i due Paesi. “Tra i venezuelani – prosegue l’operatore dell’Unhcr – la paga di una giornata costa in Colombia come tre caramelle, è grande la possibilità di cadere in situazioni di schiavitù forzata, ci sono ragazze venezuelane costrette a prostituirsi per 2.000 pesos, cioè per poco più di 50 centesimi di euro”.