Speranza e ingiustizia nelle rotte balcaniche. Il reportage di Giorgio Romagnoni
Se sei talijanski (italiano) sei privilegiato: puoi permetterti un tuffo nel mare Adriatico a mezzogiorno a Rijeka sotto a un sole che sa di crisi climatica più che di estate di san Martino.
Poi in tre ore sei a Bihać, punta nord della Bosnia ed Erzegovina, e le montagne ti chiedono di mettere la giacca invernale. Per attraversare il confine non serve mostrare nemmeno un passaporto, basta la nostra bella carta d’identità elettronica controllata svogliatamente da un poliziotto alla carina (la dogana). E così in sei ore abbiamo attraversato tre confini, senza paure, ansie o rischiare la vita, solo con un documento. Siamo lo staff dell’associazione Popoli Insieme di Padova e ci facciamo accompagnare per qualche giorno dagli operatori del Jesuit Refugee Service e da Silvia Maraone di Ipsia, realtà che opera in territorio bosniaco dagli anni della guerra civile. Ci accompagnano a vedere le persone in movimento. Noi le conosciamo “quando arrivano da noi”, ma qui in Bosnia come va? Ci interessa guardare oltre il giardino di casa? Intanto usiamo il plurale. Non c’è un’unica rotta balcanica, ci sono tante varianti di percorso: alcuni innesti partono dalle isole greche, altre dalla Turchia europea, ci sono persino degli ancoraggi subsahariani lungo l’Egitto, ma le piste possono partire dalla Mongolia e da Cuba o dal Marocconon esattamente quello che ti aspetteresti. Così scopri che ultimamente si intravede qualche cinese; si notano meno pakistani e meno afghani del solito; ci sono siriani e iracheni. Ci sediamo al campo per famiglie e minori non accompagnati di Borici e ci sono tre ragazzini che disegnano la loro bandiera berbera. Disegniamo con Kirghiz e i suoi fratelli, il papà sembra un ritratto di Tamerlano, la mamma dipinge meravigliosamente. Parte la musica e i cubani si slanciano in pista per la gioia delle giovani servizio civiliste di Ipsia intente a tagliare la torta di compleanno per il Jesuit Refugee Service. Che bella tenda delle Nazioni, quanti popoli insieme sotto il cielo grigio di Bihać, ma indovinate perché proprio quelle nazionalità? E perché qui e non da noi? E perché adesso e non due anni fa? Basterebbe guardare la classifica dei passaporti; si potrebbero studiare un minimo le possibilità di avere un visto di ingresso da un Paese piuttosto che da un altro, verso alcuni Paesi escludendone per forza altri, e se il Burundi non riconosce il Kosovo, allora forse il cittadino burundese potrà arrivare in Serbia senza visto e poi fare partire da lì la sua “Balkan Route”... ma soprattutto bisogna rendersi conto che le rotte sono totalmente in mano ai trafficanti di esseri umani in barba a chi urla in tivù. Spegniamola e fermiamoci un secondo a parlare con qualche persona ospitata dentro al centro di transito di Lipa, isolato su un altipiano a 30 chilometri da Bihać, un incendio nel 2020, la ricostruzione nel 2021, i boschi con gli orsi e le mine della guerra civile intorno. Ascolti che se paghi arrivi oltre confine, comodo comodo in “taxi”, a meno che il trafficante non riempia troppo il van e poi corra per brutte stradine con la polizia alle costole. Se invece i soldi non ce li hai, se non riesci a fare squadra con altri, “vai con Dio” e la polizia croata picchia, rompe le gambe, brucia i tuoi documenti, butta nel fiume il compagno che non sa nuotare. Alcuni di loro fanno tutto questo senza avere l’uniforme addosso, diciamo nel tempo libero dopo lavoro. Poi ti spaccano il cellulare in modo da renderlo inservibile: così togli uno strumento fondamentale per la sopravvivenza e cancelli ogni traccia di violazione dei diritti umani. Lo sa il giovane cinese che, preoccupato, non molla lo zaino nemmeno quando si riposa al Daily Center del Jesuit Refugee Service e lo sa il marocchino che ha la figlia che lo aspetta a Stoccarda in Germania. Sanno anche che potrebbe andare peggio: ora che sono dentro all’area Schengen i poliziotti croati sono più tranquilli perché tanto il migrante andrà oltre Zagabria, prima erano molto più rudi. Oggi potresti incontrare quella guardia di granica (frontiera) sufficientemente svogliata e mentre fai il “game”, mentre cerchi di varcare il confine, ti vede, ma resta lì. Il problema è proprio questo: l’applicazione dei diritti umani e della Convenzione di Ginevra affidati alle cure del caso, al colpo di fortuna del migrante che non finisce in un fiume o sotto un’auto e poi al cimitero di Bihać come Ghazi, dodicenne afghano, morto nel 2022. Alcune persone migranti domandano preoccupate se forse non sia meglio finire tra le grinfie di un poliziotto ungherese; altri si chiedono se finiranno in Albania nei campi detentivi pensati dal Governo italiano – è improbabile, ma l’obiettivo è raggiunto: la paura serpeggia, aumenta il senso di vulnerabilità, sale il prezzo del viaggio, cresce il puzzo di ingiustizia.
Questo riguarda anche i locali in fuga da uno Stato disfunzionale nato sulle ceneri di un cessate il fuoco. Bihać sopravvive con le rimesse dai suoi migranti in Slovenia, Austria, Germania; la Bosnia si poggia su promesse e potenziale inespresso, ogni cambiamento si blocca perché nel Governo del Cantone manca il rappresentante di una delle tre etnie e intanto partono verso l’Ue solo i giovani con i genitori, che – quando ancora era facile – si sono procurati il passaporto croato. Serie A contro serie C, stessi cromosomi alla nascita, la differenza di diritti la fa chi sono mamma e papà. E allora per capire chi viaggia dovremmo fare come diceva Gino Strada: «La migrazione non la intendi finché sul barcone non ti immagini tuo figlio». Oppure immaginati tu: dentro a un container senza riscaldamento al freddo del campo di Lipa, affamato in una strada secondaria mentre provi il confine di Velika Kladusa, torchiato da una poliziotta in tenuta anti-sommossa perché sembri straniero. «Non è giusto», lo direbbe anche un bambino. Con gli occhi limpidi di una bimba siriana vogliamo guardare il mondo e denunciare che certe cose non ci stanno proprio bene. Noi non siamo d’accordo e lo diremo a tutti. E allora ci rimettiamo in macchina, sei ore, tre confini, un documento, quello “giusto”, e torniamo a Padova. Continueremo a fare il nostro lavoro: accogliere le persone in movimento; essere il primo rifugio sicuro dopo mesi, anni, di viaggi sofferenti e pericolosi; ascoltare e accompagnare. Continueremo a impegnarci per un mondo più equo e giusto, per la dignità delle persone migranti, anche per quelle persone sulle cui lapidi al cimitero di Bihać c’è inciso l’anno di morte accompagnato da Nn (no name), e delle tante, morte sulle montagne, a cui non si è nemmeno dato degna sepoltura, migranti senza nome e senza età che hanno perso la vita nel tentativo di attraversare il confine verso l’Europa.
Giorgio Romagnoni
(da Bihać, Bosnia ed Erzegovina) a nome delle operatrici e degli operatori di popoli insieme