In arrivo dai campi profughi in Etiopia 113 persone

113 storie con tanti elementi in comune ma tutte diverse, come la sofferenza e le speranze nelle loro vite, racchiuse in piccolo bagaglio. Viaggio tra i profughi che nella capitale etiopica si stanno preparando al “trasferimento” sicuro e legale verso l’Italia, grazie ai corridoi umanitari promossi nell’ambito del Protocollo d’intesa con lo Stato italiano, siglato dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Cei, che agisce attraverso Caritas Italiana e Fondazione Migrantes. Arriveranno a Roma-Fiumicino il 27 febbraio.

In arrivo dai campi profughi in Etiopia 113 persone

(da Addis Abeba) – Una casa provvisoria nella capitale dell’Etiopia, in attesa del grande salto verso l’Italia, è già un vero lusso. È stata presa in affitto per loro ed è il primo rifugio sicuro rispetto ai lunghi anni passati nella miseria e nell’incertezza dei campi profughi alla frontiera, senza più poter tornare indietro verso il Paese da cui fuggono. Da circa un mese dormono almeno in dieci in una stanza ma qui hanno cibo, sorrisi e attenzioni a sufficienza.

In questi giorni stanno svolgendo colloqui, pratiche burocratiche e visite mediche che li preparano al viaggio che cambierà definitivamente le loro vite, il 27 febbraio. Arriveranno infatti a Roma, all’aeroporto di Fiumicino, 113 profughi selezionati tra i più vulnerabili nei campi etiopici o nelle periferie di Addis Abeba. L’Etiopia, nonostante la povertà della maggioranza della popolazione, accoglie a braccia aperte, senza pregiudizi né atteggiamenti di chiusura, almeno 1 milione di profughi. I 113 profughi sono eritrei, somali e sudsudanesi e potranno entrare attraverso la via legale e sicura dei corridoi umanitari, realizzati grazie al protocollo d’intesa tra Stato italiano, Comunità di Sant’Egidio e Conferenza episcopale italiana, che agisce attraverso Caritas italiana e Fondazione Migrantes, con la collaborazione logistica della sede etiopica della Ong Gandhi.

Saranno distribuiti in 18 diocesi disposte ad accoglierli come se fossero in famiglia, curando ferite morali e fisiche, facendo studiare i bambini, offrendo opportunità reali di integrazione.

Il primo arrivo di una ventina di profughi dall’Etiopia è stato a novembre scorso, entro quest’anno o i primi mesi del 2019 ne dovranno arrivare in tutto 500.

Dal campo profughi alla casa ad Addis Abeba. Coperte colorate in terra, zainetti e vecchi trolley: in quei pochi effetti personali sono racchiuse intere vite, forzatamente costrette a dimenticare il passato. Molti sono stati nei campi per un periodo interminabile, perfino otto o dieci anni. Loro sono molto fortunati, ora possono pensare a un futuro. Tanti altri stanno invecchiando lì e probabilmente non vedranno altro. Nei due piani della casa di Addis Abeba ora sono in 62, tra loro 20 bambini (alcuni con disabilità) e 17 donne. Tutti eritrei, tutti provengono dal campo di Mai Aini, a 150 km dalla frontiera, dove vivono in 7.000. Ma sono almeno 50.000 gli eritrei nei 4 campi della zona.

Le storie hanno molti elementi in comune ma sono tutte diverse, come la sofferenza e le speranze che animano i racconti. Sono gli occhi, la gestualità, i dettagli, le emozioni che trapelano, il detto e il non detto che fanno la differenza. Le persone ti stringono la mano e ti guardano con una curiosità spontanea e un moto del cuore.

L’antropologo e il padre di famiglia. Due di loro hanno lo stesso nome, Teame. Uno ha 27 anni e parla un po’ d’inglese, aiuta a tradurre dal tigrino. È fuggito da solo, senza dir nulla alla famiglia, a 18 anni, per non dover fare il militare a vita. In Etiopia è riuscito a studiare antropologia (il governo permette ai profughi di studiare gratuitamente fino all’università) e insegnare ai bambini del campo. Sarà destinato alla diocesi di Aversa:

“È la mia grande opportunità. Ora voglio aiutare i bimbi eritrei in Italia”.

L’altro Teame ha 42 anni e una storia più sofferta alle spalle. È qui con la seconda moglie e un figlio di 7 anni con una patologia allo stomaco, anche lui sarà accolto da Caritas Aversa. Il suo lavoro era mettere “mattonelle” (pronuncia la parola in italiano), oltre a fare il soldato, come tutti, per oltre 10 anni. è fuggito nel 2003 verso l’Egitto nel tentativo di raggiungere la prima moglie e la figlia in Israele (che ora ha 19 anni e non ha più visto), ma è incappato nei trafficanti del Sinai, poi è finito in carcere per un anno ad Alessandria. Di quel periodo non vuole parlare, ricorda solo che

“torturavano e tagliavano mani e piedi”.

Uscito di prigione è riuscito a tornare indietro nel campo etiopico, dove si è risposato. Due i suoi desideri: “Curare mio figlio e poter lavorare per mantenere la mia famiglia”.

Il coraggio di una donna e di un diacono ortodosso. Ezgharya ha 40 anni e un viso magrissimo, provato dalle tribolazioni e dalla denutrizione. L’unico vezzo, tante treccine in testa. Ha avuto il grande coraggio di fuggire da sola con i due figli Shewit e Abyei, 13 e 14 anni. Era costretta a fare la cuoca per l’esercito eritreo, con un marito violento. “Avevo molta paura ma non avevo scelta. Non avrei mai lasciato i miei figli”. Abitava vicino al confine, per cui ha mandato avanti i figli insieme alle pecore, come se fossero dei semplici pastori. Subito dopo lei li ha raggiunti, schivando, come tutti i profughi, i proiettili della polizia di frontiera.

“Per noi il campo in Etiopia rappresenta la libertà”.

Ha trascorso lì tre anni. Uno dei ragazzi, dal volto dolce e spaurito, ha problemi alla gamba sinistra e zoppica molto. Caritas Catania ha già predisposto per lui la possibilità di una operazione. Il sogno di Ezgharia, una volta in Italia, è “fare la parrucchiera e dare un futuro ai miei figli”.
Abraham, 25 anni, si distingue invece da tutti gli altri abitanti della casa perché è vestito da prete ortodosso. In realtà è ancora diacono ma a Firenze avrà finalmente la possibilità di studiare e consacrarsi. È stata l’impossibilità di vivere la sua vocazione a farlo fuggire. Ma prima ha trascorso tre anni nelle dure carceri eritree, dove vengono puniti i disertori.

“Non volevo fare il militare. Io appartengo a Dio, non al governo”.

La prigione era una ex fattoria che puzzava di sterco animale. I soprusi erano la regola: “Ci davano solo tre fette di pane al giorno e acqua sporca da bere. Una volta i militari hanno appiccato il fuoco ai miei capelli, altre volte mi hanno picchiato”. Quando è riuscito ad uscire dal carcere ha varcato il confine etiopico di notte, a piedi. Quando chiediamo se ha pagato qualcuno per passare la frontiera ride di gusto e mostra l’enorme croce d’oro che ha sul petto: “No, è lei che mi ha guidato”.

18 Caritas diocesane li stanno aspettando. In questi giorni gli operatori di Caritas italiana e i volontari della Comunità di Sant’Egidio stanno facendo i colloqui con i profughi. Li preparano a quanto accadrà tra pochi giorni. Hanno fatto vedere loro un video che parla dell’Italia, spiegato dove andranno e chi li accoglierà.

18 diocesi da nord a sud, da Biella ad Agrigento, li stanno aspettando. Ci sono famiglie e comunità che hanno messo a disposizione alloggi.

“Prima raccogliamo le disponibilità delle Caritas diocesane – spiega Daniele Albanese, coordinatore dei corridoi umanitari per Caritas italiana -, valutando i servizi che possono offrire: centri anti-tortura, scuole speciali, strutture sanitarie, eccetera.

Poi a seconda delle esigenze procediamo al matching, ossia l’abbinamento, per destinarli nelle diverse diocesi”. La difficile scelta tra i più vulnerabili nei campi avviene principalmente su segnalazione dell’Unhcr (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), della Ong Gandhi dell’eritrea Alganesh Fessaha, che vive tra Milano e i Paesi africani, premiata di recente con “L’Ambrogino d’oro”, o dei gesuiti del Jrs (Jesuit refugee service). Entrano in Italia con un visto a territorialità limitata secondo l’art. 25 del codice di Schengen. Poi seguiranno il percorso classico per avere accesso al diritto d’asilo e allo status di rifugiati. “Con l’enorme differenza che non rischiano di affidarsi ai trafficanti e morire in mare. Entrano con viaggi legali e sicuri”, precisa Albanese.

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