America. La monocoltura che brucia i boschi e devasta i territori: la “resistenza” degli indigeni sulle orme della Laudato Si’
Deforestazione selvaggia, scempio del territorio, boschi bruciati. Per contrastare i danni della monocoltura, a Cherán, nel cuore dello Stato del Michoacán in Messico, epicentro mondiale dell’aguacate, più conosciuto in Italia come avocado, la mobilitazione comunitaria ha fatto imporre al municipio una regola ferrea: nel proprio territorio non dev’essere piantata neppure una pianta di aguacate. Un caso unico, come un’isola in mezzo all’oceano, dato che ormai le piantagioni sono diventate una monocoltura in tutta la “Meseta Purépecha”. Ma le culture intensive di aguacate non sorgono solo in Messico. Attraversano tutto il continente americano, fino ad arrivare in Cile. Qui non ci sono i gruppi criminali messicani, ma un sistema economico liberista che privilegia i grandi gruppi.
“Venivano da fuori, tagliavano alberi, una deforestazione completa, bruciavano il nostro bosco, la nostra più grande ricchezza, per poi piantare dappertutto piante di aguacate. Dieci anni fa abbiamo reagito, ci siamo organizzati attraverso un auto-governo indigeno”. Laura Rosa Gutiérrez, maestra di scuola primaria e catechista, ci parla dal municipio messicano di Cherán, nel cuore dello Stato del Michoacán, epicentro mondiale dell’aguacate, più conosciuto in Italia come avocado.
A Cherán, il municipio nato dalla mobilitazione comunitaria ha messo una regola ferrea: nel proprio territorio non dev’essere piantata neppure una pianta di aguacate.
Un caso unico, come un’isola in mezzo all’oceano, dato che ormai le piantagioni sono diventate una monocultura in tutta la “Meseta Purépecha”. Chissà se il Segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, pensava anche a situazioni come questa quando ha invitato, nel dichiarare il 2021 Anno della frutta e della verdura, a utilizzare questo Anno mondiale per ripensare il rapporto con il modo in cui produciamo e consumiamo il cibo Come i prodotti esotici, per esempio l’avocado. Metà frutto e metà verdura (nei supermercati europei è tra la frutta, in quelli latinoamericani spesso sugli scaffali della verdura), si diffonde sempre più in Europa e soprattutto negli Usa.
Monocoltura vincolata ai cartelli criminali. È per rispondere a questo fabbisogno che in alcune zone del Messico l’aguacate è diventato praticamente una monocoltura, a cominciare dal Michoacán, che è anche uno degli Stati a più alto tasso di presenza criminale.
Siccome la criminalità pervade ogni aspetto della società messicana e questa è una coltivazione redditizia, non c’è da stupirsi che i due fenomeni siano connessi.
Lo spiega bene Giovanna Gasparello, antropologa padovana trapiantata in Messico, docente all’Istituto nazionale d’antropologia e storia (Unah) del Messico, che ha vissuto qualche anno fa proprio nel municipio “autonomo” di Cherán: “La criminalità in Messico gestisce tutti gli aspetti dell’economia, non si può neanche parlare di corruzione.Tutti gli aspetti della filiera sono controllati dalle bande che attraversano o che hanno attraversato il Michoacán,a partire dai Caballeros Templarios, ora smantellati e in parte ‘riciclati’. Per ogni pianta c’è un prezzo da pagare alle bande, 1.500 pesos se è destinata al mercato nazionale, 3.000 se a quello statunitense. Questo Stato, poi, è a vocazione agricola, fin dalla costa sul Pacifico. Si passa dalle fragole e frutti di bosco, al caffè, fino all’aguacate nella zona di Uruapan e nella Meseta Purépecha. Quest’ultima era una zona boscosa ed è stata deforestata in modo metodico. In pochi anni si è passati da 13mila ettari a 153mila.
In teoria rimane in molti casi la piccola proprietà, in pratica è una forma di landgrabbing”.
Gasparello cita due municipi come emblema della ribellione a questo modello: Tancitaro, “dove sono sorte le autodefensas dei coltivatori storici contro i cartelli, che hanno provocato un sacco di morti”, e Cherán, “il Comune che è riuscito a sottrarsi a questa logica”.
Non a caso, Tancitaro e Cherán sono i Municipi del Michoacán che fanno parte di un programma del Cias (Centro di investigazione e azione sociale) – Gesuiti per la pace, l’organismo della Compagnia di Gesù che promuove in tutto il Paese progetti di pace e riconciliazione.
Spiega il direttore del Cias, padre Jorge Atilano Gutiérrez: “La causa della violenza nel Michoacán non è l’aguacate, semmai si tratta di una delle due manifestazioni. La violenza che colpisce il territorio rurale dello Stato ha le sue motivazioni in quanto accaduto decenni fa, ai tempi dell’abbandono dell’agricoltura comunitaria e di una privatizzazione che ha espulso molti campesinos dai processi produttivi, spesso costringendoli a emigrare.
Nei vuoti si sono inseriti i cartelli criminali, che in molti municipi operano in simbiosi con le Amministrazioni.
A Tancitaro, tra il 2006 e il 2013 ci sono stati oltre 3 mila sequestri di persona. Spesso chi non aveva soldi per pagare il riscatto offriva terreni”. I gesuiti intervengono “nella ricostruzione del tessuto sociale, in alleanza con la Chiesa e la società civile locale, nell’istituzione di cooperative. A Tancitaro è stato fatto un lavoro nelle scuole e nelle famiglie, le autodefensas sono state istituzionalizzate, ed è questo e solo a questa condizione possono funzionare senza entrare in spirali di violenza. A Cherán funziona la guardia comunitaria di guardaboschi”.
La Chiesa a fianco degli indigeni. Torniamo, allora, proprio a Cherán. “Sì – ricorda Laura, la maestra già incontrata all’inizio di questo articolo – dieci anni fa il nostro popolo si è svegliato.
Oggi, possiamo dire che non è stato facile, è stata una lotta costante. E se finora abbiamo vinto è perché siamo riusciti a coinvolgere tutta la comunità.
Il nostro non è un comune piccolo, abbiamo quasi 20mila abitanti, viviamo in un luogo prezioso, umido, il nostro tesoro sono i boschi ma anche l’identità culturale dell’etnia Purépecha. Rischiavamo di perdere la loro lingua e in questi anni abbiamo organizzato corsi per mantenerla”. Ma la nostra sfida, conclude la maestra, che è anche catechista in parrocchia, è soprattutto educativa. E la collaborazione con la Chiesa si è rivelata fondamentale”.
Conferma il parroco della comunità, dedicata a san Francesco d’Assisi, padre Sergio Guerra Lúa: “Accompagniamo la comunità non solo dal punto di vista strettamente religiosa, ma anche in questo che è un cammino di vita”, Certo, prosegue, “tutto è nato dalla volontà di proteggere il nostro bosco, ma non è stato un cammino facile, è forte la tentazione di cedere ai gruppi più forti.
Noi però crediamo nel valore della comunità, nella forza di una visione alternativa.
Su questo la nostra comunità cammina da tempo, e la stessa Laudato Si’ di Papa Francesco ha rafforzato questo nostro percorso”.
Cile: via le foreste e la questione dell’acqua. Ma le culture intensive di aguacate non sorgono solo in Messico. Attraversano tutto il continente americano, fino ad arrivare in Cile.
Qui non ci sono i gruppi criminali messicani, ma un sistema economico liberista che privilegia i grandi gruppi.
È quello che accade con la “palta”, così questo frutto viene chiamato in Cile, che per crescere ha bisogno di moltissima acqua. Risorsa preziosa e privatizzata nel Paese australe, dove da anni sono in corso battaglie per riconoscere il valore di bene comune di tale risorsa. “Queste coltivazioni hanno delle grandissime implicazioni a livello economico, sociale e ambientale – afferma Maria Fernanda Salinas Urzúa, docente in Scienze ambientali all’Università del Cile -. Nella zona centrale del Paese, in molti casi, hanno sostituito la vegetazione autoctona. Per l’irrigazione si deviano fiumi, in un Paese dove l’acqua non è un bene pubblico e spesso scarseggia per le persone”.Non manca, in ogni caso, una società civile attiva, che nel 2019 è riuscita a portare a casa una sentenza storica, confermata dalla Corte Suprema,come spiega l’avvocato Ezio Costa Cordella, direttore esecutivo dell’ong cilena Fima: “Recentemente la Corte Suprema ha confermato che i permessi che l’Agenzia cilena per le foreste (Conaf) stava concedendo per sostituire le foreste con piantagioni di questo tipo erano illegali. Ciò significa che ci potranno essere numerose azioni di revoca dei permessi, che potranno aiutare a proteggere alcune delle foreste che non sono state ancora toccate, ma per le quali esistono già i permessi.
Senza dubbio, però, le vere soluzioni a lungo termine richiedono una nuova legislazione sull’uso del suolo e sui diritti dell’acqua, riconoscendo che essa è un bene comune”.
*Giornalista de “La vita del popolo”