Sinodo, decimo tema. La parrocchia come luogo di relazioni. Spazio dove ci si... sporca

Il decimo tema si chiede se la parrocchia, come la conosciamo, sia ancora luogo per vivere relazioni significative e incontrare il Signore

Sinodo, decimo tema. La parrocchia come luogo di relazioni. Spazio dove ci si... sporca

La parrocchia, così come la conosciamo, è ancora il luogo adeguato per vivere delle relazioni significative e incontrare il Signore? È questa la domanda al centro del decimo tema del Sinodo della Chiesa di Padova, “Le parrocchie e lo stile evangelico: una casa fraterna e ospitale”: la parrocchia è una casa fraterna e ospitale, dove creare relazioni e ascolto, ritrovarsi nella fede, testimoniare uno stile di apertura. «Quando si parla di casa – afferma Francesca Usardi, membro della Commissione preparatoria del Sinodo – si indica qualcosa di molto intimo, in cui si sta bene, ospitale anche verso gli altri. La fraternità è intesa come comunione, come modo di relazionarsi bello, buono, sano. Quindi può essere il luogo adeguato per relazioni significative, deve esserlo, ma serve responsabilità e corresponsabilità di tutti, perché la parrocchia sono le persone, e ci vuole anche uno stile evangelico, che va curato e non può essere improvvisato». Secondo don Giuseppe Alberti, parroco uscente dell’unità pastorale di Villafranca Padovana, è nei cromosomi e nella conformazione della comunità cristiana offrire spazi di incontro, vicinanza, fraternità quindi di accoglienza e ospitalità, in coerenza con i messaggi essenziali del Vangelo. C’è però un “se”: «La parrocchia può essere uno spazio di effettiva relazione significativa – spiega – se si riescono a strutturare percorsi, cammini, esperienze dove tutte queste occasioni concrete si vivono dentro una piccola realtà comunitaria, dove la relazione interpersonale è effettivamente significativa. L’esperienza di massa che poteva funzionare fino a poco tempo fa oggi non va bene. L’esperienza in terra di missione dove si parla di “comunità di base” potrebbe dare l’idea di come la parrocchia può effettivamente continuare a essere punto di riferimento significativo».

Il pre-giudizio
A questa considerazione don Giuseppe Alberti aggiunge una riflessione sull’atteggiamento interiore dei singoli e della comunità cristiana: «Vedo ancora il rischio di un atteggiamento di pre-giudizio, cioè di una lettura sulla realtà, sull’atteggiamento religioso di chi partecipa o chi non lo fa più, di chi è vicino o lontano che rischia di essere atteggiamento incasellato in schemi obsoleti, superati o in ogni caso che non favoriscono effettiva fraternità. Non creano vera accoglienza. Allontanano e non aprono la porta, non permettono di integrare anche la diversità nel modo di vivere, esprimere e sentire la fede. Sono elementi che rallentano o creano anche tensioni. La chiusura spesso rivela insicurezza e non interpreta una fede che si apre a novità, situazioni, persone, culture, problematiche. Bisogna lavorare su questo versante specifico». L’esperienza della Caritas diocesana ha sicuramente molto da dire in tema di accoglienza, come spiega il diacono Lorenzo Rampon, il direttore: «In una relazione l’altro è qualcuno che io considero in quanto essere umano e non mi permetto di dare valutazioni aprioristiche, ma sono aperto all’altro perché può far crescere la mia persona. Nelle nostre parrocchie ci si può allenare per essere persone che offrono sé stessi come possibili relazioni significative». La discrezione è senz’altro un fondamento nelle attività della Caritas, così come l’onestà, la linearità di comportamento. «In parrocchia ci devono essere relazioni di questo tipo», dice Lorenzo Rampon.

Essere cristiani curiosi
Cioè capaci di stupore e di saper cogliere i segnali: questo aiuta a creare relazioni significative. «Nella mia esperienza – spiega don Fabio Artusi, parroco di Terranegra, San Gregorio Magno e Spirito Santo – vedo che la parrocchia può essere luogo che aiuta ad affrontare l’imbarazzo di certe esperienze della vita e che mi chiede anche di essere curioso». Per chiarire cosa intende porta un esempio molto concreto, quello del lutto: «La curiosità non è vedere come le persone affrontano l’imbarazzo della morte e l’insieme delle sue incombenze. La parrocchia aiuta a superare quest’imbarazzo. La curiosità è vedere un’assemblea che a partire dal segno della croce mi prospetta un tipo di partecipazione. Nella celebrazione osservo l’assemblea e colgo i segni. Dentro a questo cammino la parrocchia non diventa struttura che ha come compito quello di essere un luogo, ma piuttosto si mette in ascolto dei luoghi dove l’uomo di oggi soffre o mostra anche la sua distanza apparente dal Vangelo. Essenziale è che la parrocchia non sia autoreferenziale, che non si rinchiuda nella sua struttura e non dimentichi di essere umana». «Se incontro l’altro come qualcuno di cui fruire – sottolinea Lorenzo Rampon – che mi è utile, sicuramente non sono nella giusta disposizione, se incontro l’altro come una meraviglia, una sorpresa, che mi possa stupire e offrire elementi interessanti anche per la mia vita allora l’atteggiamento è di apertura e di interesse, di accoglienza».

Una Chiesa che si mette in ascolto. Con fatica
«Si parla tantissimo di parrocchia in uscita – afferma Francesca Usardi – per me è prima di tutto una parrocchia che al suo interno esce da sé stessa e dalle sue convinzioni, dal si è fatto sempre così, dalle cose consolidate. Esce, incontra il vicino di banco in chiesa o in consiglio pastorale o nel servizio in sagra. Solo così poi ci sono le fondamenta per uscire davvero». «Se desideriamo essere chiesa in uscita – ribatte don Fabio Artusi – non dobbiamo prepararci i guanti, ma andare a mani nude e sporcarci. Perché se non ci sporchiamo di questa umanità che è carica di tante aspettative e anche di malesseri ed emergenze non riusciremo mai a far emergere quello che sembra inguardabile e inascoltabile. Bisogna essere un po’ più umili e anche per certi aspetti non aver paura».

Formazione e cura di sé
«Servono percorsi che aiutino non solo ad avere nuovo atteggiamento interiore, una nuova forma mentis – dice don Giuseppe Alberti – ma anche a riflettere sul nuovo volto di Chiesa che vogliamo essere oggi, smascherando quelle realtà che nel concreto creano nodi, situazioni patologiche che non permettono di fare passi di conversione, nei singoli, nei gruppi, nei preti, nei laici». «Ognuno in parrocchia ha un impegno importante sulla cura di sé – aggiunge Lorenzo Rampon – che significa offrire all’altro qualcosa di bello e appetibile, in termini evangelici. E poi ci vuole disponibilità a un cambiamento, a non rimanere fissi nella propria struttura ma essere aperti a una conversione».

Prendersi cura dell’altro
In questo ambito la Caritas sottolinea tre sfide da affrontare: capillarità dei servizi, cambio di mentalità, saper cogliere le povertà immateriali: «Nel nostro contesto non è possibile interpretare l’aiuto in modo non professionale – spiega Rampon – Non significa avere dei super esperti ma persone che conoscono i propri limiti e che sanno interloquire con il territorio. Il cambio di mentalità sta nell’accogliere l’altro con il suo carico di limiti e fatiche, per ciò che è. Infine le nostre parrocchie sono molto attente a cogliere le povertà materiali invece più carenti per quelle immateriali, le solitudini. Sono ambiti da esplorare e affrontare». Si parte dalla conoscenza, per don Fabio Artusi, per creare comunità e fraternità e per lasciarsi interpellare dalle “novità” del nostro tempo: «Capire come mi vedono gli altri, cosa hanno da insegnarmi. Mi faccio io umile per dire a te: lo sai che sei ricco e hai tanto da donarmi? La tua cultura, la tua esperienza umana e di fede possono arricchire una nostra comunità. Chi ha fatto tanta strada e cerca di poter imparare a vivere qui da noi ha bisogno di mantenere la sua cultura e di poterla far dialogare. Così comunità cristiana fa polis, crea città e si sente cittadina di questo mondo». Torna infine la dimensione della curiosità: «Trovare spazio per mettersi in ascolto di questo mondo così variopinto, andare oltre. Diventare spazio di ascolto curioso» conclude
don Artusi.

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