Riconciliazione. La “terza forma” diventi prassi abituale nelle nostre comunità. L'esperienza a san Lorenzo di Albignasego
Scrivo queste righe ancora ricco dell’emozione della celebrazione penitenziale “terza forma” con l’assoluzione di tutti i presenti, rito vissuto venerdì sera in parrocchia. Per Natale non avevo osato chiedere l’autorizzazione, fresco com’ero di incarico parrocchiale; per Pasqua l’ho caldeggiata e chiesta, ottenuta e celebrato il rito. E ne sono stato felice.
I fedeli erano stati informati e – come possibile attraverso il foglietto parrocchiale e gli avvisi a voce per due domeniche – “formati” alla novità. La sera della celebrazione qualcuno è arrivato anche venti minuti prima, all’orario fissato la chiesa si è riempita facilmente, c’era un bel raccoglimento, intenso. Celebrazione sobria, senza accentuazioni di gesti o sceneggiatura. Alla fine molti hanno ringraziato per l’opportunità. Spero vivamente che questa “terza forma” sia concessa ancora, senza bisogno di pandemie o situazioni eccezionali, e diventi prassi abituale delle nostre comunità. Perché, a mio parere, quello che conta – ed è l’essenziale – è che il cristiano si senta accolto e perdonato, sperimenti la vicinanza del Padre misericordioso e della Chiesa madre.
Se le dinamiche celebrative aiutano a cercare non solo l’“assoluzione”, ma soprattutto la riconciliazione con Dio e con la comunità, che problema ci sarebbe a rendere più frequente questo rito? Sarebbe impossibile far convivere confessione auricolare e assoluzione comunitaria? Serve preoccuparsi che la gente torni dal confessore a fare l’accusa o essere contenti che i cristiani arrivino a essere perdonati?
Non capisco, insomma, le posizioni di chi sembra preoccupato più di questioni giuridiche e di liceità (o di controllo delle coscienze?) che di magnificare la realtà del sacramento, cioè l’essere perdonati. Di fronte a certi dubbi, alcuni meritevoli di considerazione e riflessione, forse è da ricordarci che i sacramenti sono per i fedeli e non il contrario; che, sì, la Chiesa come comunità ecclesiale celebra e rende operativa la vita della grazia, ma è sempre e solo Dio colui che perdona. E la Chiesa – ospedale da campo più che dogana, secondo il pensiero di papa Francesco – deve anteporre a ogni norma il rispetto per le coscienze delle persone, favorendo in tutti i modi l’incontro personale e comunitario con la grazia di Dio e celebrarlo con gioia piuttosto che “controllarlo”. Senza confondere mezzi e fini.
Abbiamo cominciato una strada. Spero non sia interrotta troppo presto.