La lezione ancora attuale di Filippo Franceschi
Il vescovo Filippo, morto trent’anni fa, tradusse dal punto di vista pastorale e operativo nella Diocesi di Padova i grandi documenti conciliari. Tre i punti chiave del suo episcopato: l’attenzione alla cultura; la comunità cristiana soggetto primo di pastorale; lo sguardo rivolto al futuro, intravedendo già i grandi cambiamenti che avrebbero presto radicalmente modificato anche il profilo del Veneto. Una lezione i cui frutti sono ancora vivi nel cammino della Chiesa padovana, come raccontano alcuni dei suoi più stretti collaboratori nel servizio in uscita sulla Difesa di domenica 27 gennaio.
Mons. Alfredo Magarotto, vescovo emerito di Vittorio Veneto, negli anni Ottanta era vicario generale della diocesi di Padova.
Fu lui a imporre le mani sul capo di mons. Filippo Franceschi in quell’indimenticabile Giovedì santo del 1988, quando l’arcivescovo, gravemente malato, chiese e ricevette pubblicamente, nella messa crismale, l’unzione degli infermi. «Sentivo – dichiara Magarotto – che le mie mani erano quelle di tutti i suoi preti, che tutta la Chiesa era lì presente per accompagnarlo all’incontro con il Padre».
Per Magarotto gli anni di episcopato padovano del vescovo toscano, dal 28 marzo 1982 al 30 dicembre 1988, «furono solo un inizio: il meglio l’avrebbe dato dopo».
Quel “meglio” non poté darlo di persona, ma lo consegnò alla diocesi come seme da far fruttificare attraverso le idee forti che aveva lasciato, contenute soprattutto nel quaderno “Chiesa di adulti” «che è diventato – spiega mons. Paolo Doni, al tempo vicario per l’apostolato dei laici – il testo base del progetto pastorale su cui ha camminato la nostra diocesi per tutti gli anni del suo episcopato, a partire dal 1985, tant’è vero che il triennio dedicato alla carità si concluse nel 1990, quando era già morto».
Tre grandi punti per una Chiesa di adulti
Secondo mons. Doni sono tre i punti fondamentali nel modo di Franceschi di pensare una Chiesa di adulti, e quindi l’apostolato dei laici: «Anzitutto l’attenzione alla cultura, non solo perché lui era un uomo di raffinata cultura teologica e filosofica, ma perché intendeva la cultura come sostrato del pensare e del sentire umano. Era l’attenzione a quello che avviene nella realtà delle persone, delle comunità e del paese. L’attenzione alla cultura è per Franceschi il tentativo di leggere la parola di Dio con riferimento continuo al reale. O l’evangelizzazione, la liturgia e la carità si nutrono continuamente nel riferimento alla storia, al vissuto del popolo, oppure rischiano di diventare insignificanti».
Il secondo punto chiave è il coinvolgimento del popolo di Dio: la comunità cristiana è soggetto primo e fondamentale di qualsiasi attività ed espressioni della fede. Da qui è nata l’attenzione agli organismi di partecipazione «che abbiamo chiamato – aggiunge Doni – organismi “di comunione”, perché la comunione non è un connotato solo spirituale, ma un sentire che, partendo da dentro, diventa anche modo di organizzarsi. È nata qui l’attenzione alla strutturazione della pastorale e della comunità: non un insieme disorganico e occasionale di persone, ma un corpo con una sua struttura portante.
Il terzo dono di Franceschi è stata la prospettiva profetica, di una Chiesa che guarda sì al passato, ma ha gli occhi rivolti al presente e soprattutto verso al futuro. «Percepiva che le cose stavano cambiando molto velocemente a livello culturale e sociale, e quindi anche di comunità cristiana e pastorale. Ancora adesso viviamo di questa spinta venuta dalla traduzione operativa, pastorale dei grandi documenti conciliari».
Mons. Magarotto ribadisce come Franceschi fosse portatore di «una pastorale più rispondente al cambiamento dei tempi. Voleva che l’apporto della Chiesa fosse di stimolo, di orientamento, di sostegno, non solo ai fedeli. Egli fu un pastore dei sì più che dei no, lavorava sul positivo, apriva orizzonti, dava idee, incoraggiava esperienze. La fondazione Lanza fu la massima espressione di questo ascolto del mondo della cultura e dell’università, ma era un ascolto reciproco, un dialogo in cui leggere con chiarezza l’attualità e prospettare idee di un futuro in cui la Chiesa fosse presente da protagonista».
Su questa notazione positiva mette l’accento anche mons. Mario Morellato, che negli anni Ottanta era rettore del Maggiore: «Incontrando seminaristi e professori del seminario, il vescovo Filippo portava un senso di fiducia nell’impegno della Chiesa e anche della vocazione presbiteriale: vale la pena essere cristiani, essere preti in questo momento e in questo mondo. Vale la pena vivere una fede così ricca, un Vangelo che è messaggio di bene, di rinnovamento, di fede adulta. Ci stiamo preparando a qualcosa di valido per tutti e con tutti possiamo dialogare in tale prospettiva».
Toni Da Re, ora ordinario di filosofia morale e bioetica all’università di Padova, è stato uno dei giovani di “don Pippo”, tanto che, con la moglie, ha deciso di chiamare Filippo il primo figlio maschio: «Dopo la morte di Franceschi, con la rivista Appunti abbiamo pubblicato gli interventi che il vescovo aveva tenuto nella prima parrocchia della sua visita pastorale, Santa Croce. Tra le cose emerse, mi ha colpito il suo atteggiamento sulla preparazione ai sacramenti dell’iniziazione: era giusto chiedere l’impegno di ragazzi e genitori, ma con un atteggiamento di accoglienza e di comprensione che ora assimilo a quello di papa Francesco».