La Pasqua felice di don Massimo Fasolo, il parroco sopravvissuto a Covid-19
Si sente un miracolato, un graziato, don Massimo, il parroco di Conche e Valli di Chioggia che lo scorso 7 marzo è stato ricoverato a Piove di Sacco in condizioni critiche per la gravità dei sintomi da Covid-19. Ora racconta alla Difesa la lotta per la vita del mese trascorso in ospedale e guarda a come questa esperienza cambierà il suo essere uomo e prete.
«Dio ci è vicino sempre, anche quando intraprendiamo tunnel bui, tenebrosi, oscuri, in cui difficile trovare senso». E questa vicinanza estrema di Dio, don Massimo Fasolo l’ha sentita forte nella mente e nella carne dal 7 marzo, giorno del suo ricovero a Piove di Sacco a causa del Coronavirus, a oggi. Lo dice senza preamboli, il parroco di Conche e Valli di Chioggia, si sente un «miracolato, un «graziato», un uomo che ha viaggiato fino alla porta della morte e poi è tornato alla vita. «E il senso nella vita c’è sempre, eccome – ci dice al telefono dalla casa del fratello Fiorenzo a Massanzago - come nella morte e nella malattia: tutto sta nel capire che cosa il Signore vuole da noi».
Il calvario di don Massimo si è concluso il 3 aprile, con la dimissione dal policlinico di Padova e l’inizio della riabilitazione. Ma il pensiero del sacerdote ritorna a quei primi giorni di marzo: «Vivevo un malessere generale, ma davvero non mi ero reso conto della gravità delle mie condizioni, né che potevo aver contratto il virus. È stato su pressione delle suore di Conche e di alcune collaboratrici che abbiamo chiamato l’ambulanza». Ma la situazione era talmente seria che il 9 si è deciso il trasferimento all’Azienda ospedaliera e il 10 don Massimo si trovava all’Istar (la Clinica di anestesia e medicina intensiva), dove il parroco ha trovato il suo angelo custode, il prof. Eugenio Serra, che lo ha seguito e gli ha dato il coraggio necessario a un uomo che necessitava dell’intervento dell’Ecmo, attrezzatura specifica di emodinamica in grado di prelevare il sangue, ossigenarlo e re-immetterlo nel corpo del paziente.
«L’esperienza in ospedale è stata davvero una dura lotta – riprende don Massimo – I primi giorni non ero completamente lucido, ricordo l’intubazione, il casco per la ventilazione, l’impossibilità perfino di assolvere ai bisogni primari. Si tratta di una situazione drammatica che si attraversa in una enorme solitudine, per questo la mia solidarietà va continuamente alle migliaia di persone che si trovano ora in questa situazione, e ancor più alle famiglie di tutti coloro che non sono sopravvissuti».
Fuori dall’ospedale nel frattempo si era già stata creata una «barriera di fuoco di preghiera», come la definisce Fiorenzo Fasolo, che ora si gode il fratello sacerdote a casa nel giorno di Pasqua per la prima volta dopo molti anni. «Le suore di Conche hanno attivato anche le consorelle in India, tanti amici vicini al santuario di Padre Pio e al Rinnovamento nello Sprirto Santo hanno pregato incessantemente». E così, il 21 marzo don Massimo viene estubato e continua la degenza in terapia semi intensiva. Alla fine saranno cinque i reparti attraversati e 27 giorni di ospedale.
«Ora mi auguro di rimettermi al più presto per riprendere la mia missione sacerdotale. Penso alle mie due comunità e mi auguro che questa piaga cessi a più presto, che la gente possa tornare a lavorare, che chi ha perso il lavoro possa ritrovarlo presto e che i ragazzi tornino a scuola». I doverosi ringraziamenti don Massimo li invia al vescovo Claudio e al vicario generale don Giuliano Zatti che si sono costantemente tenuti informati delle sue condizioni, ai confratelli preti che hanno pregato per lui e all’Istituto diocesano di sostentamento del clero, in particolare al Stefano Manfrin.
Come potrebbe cambiare ora la sua vita di prete? «Di certo ripenso con maggior gratitudine a tutte le esperienze che ho vissuto e che il Signore mi permetterà di fare. MI rendo anche conto che dovrò forse essere più attento alla mia persona, il virus mi ha fatto capire che dovrò tenere maggiormente conto delle mie forze, concentrarmi sullo specifico e coinvolgere sempre più i laici: non siamo più una chiesa “parroco-centrica” ma più plurale, in cui vengono valorizzati i carismi. Se il Signore mi darà la forza, continuerò con gioia il ministero, ora l’importante è guarire in profondità».