"Il Sinodo? Un'esperienza che ci arricchirà come Diocesi"
Nominato da papa Francesco come membro del Sinodo dei vescovi che si aprirà il 3 ottobre in Vaticano su “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”, il vescovo Claudio racconta in questa intervista esclusiva le attese a pochi giorni da un'esperienza importante in cui potrà condividere il cammino vissuto dalla nostra Chiesa con il Sinodo dei giovani.
La telefonata della segreteria generale è arrivata a fine luglio, comunicando la scelta di papa Francesco di nominarlo membro del Sinodo dei vescovi che dal 3 al 28 ottobre affronterà il tema de “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. Un breve (e comprensibile) momento d'incertezza, uno sguardo al calendario e qualche necessario cambiamento (la visita pastorale: "salta" giocoforza la prima tappa in programma a Zugliano e Zanè), la scelta di fidarsi e affidarsi: dal 3 ottobre, appena tornato dal viaggio in Turchia con i preti giovani, il vescovo Claudio sarà a Roma per un mese che promette di rivelarsi l'ennesimo snodo cruciale nell'impegno di rinnovamento della Chiesa che è la cifra più profonda del magistero di Francesco.
Lo incontriamo a Villa Immacolata, nel primo giorno della settimana dedicata ai preti che hanno cambiato il loro servizio pastorale: un tema, quello del cambiamento, che percorre come auspicio anche la Lettera che i giovani del Sinodo hanno rivolto alla Chiesa di Padova e che quest'anno attende di essere presa in mano dalle comunità, come prezioso contributo alla più generale riflessione sull'identità della parrocchia. Ma andiamo con ordine.
«Quella che mi appresto a vivere sarà sicuramente un'esperienza densa di incontri che al mio ritorno potranno arricchirci come diocesi. Al tempo stesso, se ce ne sarà l'opportunità, vorrei portare e condividere con altri la nostra esperienza, che è il frutto di un lavoro per tanti aspetti straordinario».
Sicuramente la scelta di inserire il vescovo di Padova tra i membri di “nomina pontificia” è figlia anche del Sinodo dei giovani...
«Credo soprattutto delle modalità che abbiamo scelto. Cinquemila giovani coinvolti, un'assemblea sinodale di 160 ragazzi che si sono fatti carico di leggere e discernere i segni dello Spirito nelle relazioni dei gruppi sinodali, una Lettera finale di una serietà e profondità inedite, indicano una strada e ci lasciano una lezione: se abbiamo la voglia e l'intelligenza di dare fiducia ai giovani, scopriamo nel loro cuore grandi risorse umane e spirituali. Insisto su quest'ultimo termine, perché credo sia la chiave di volta dell'intera riflessione che la nostra Chiesa è chiamata a fare: il loro è stato un cammino di alta spiritualità, che provoca ciascuno di noi ad andare oltre, a riflettere sulla qualità della nostra vita spirituale. Abbiamo scoperto di avere giovani capaci perfino di superare noi adulti, quando qualcuno li pensava, al più, capaci di obbedirci...».
C’è una speranza che la accompagna in vista del Sinodo?
«Che la nostra Chiesa, tutta, sia capace di dare piena fiducia ai giovani! Ciò significa non fermarsi a guardarli con la lente del sociologo, non considerarli tutti uguali, ma ciascuno, prezioso, in virtù dell’unicità della sua vocazione. Spero, insomma, che troviamo la forza di metterci noi, per una volta, alla scuola dei giovani».
Quel che emerge dalla Lettera è un rapporto tra generazioni segnato più dal desiderio di condividere un cammino che da contrapposizioni o fratture. I giovani di oggi sono diversi da quelli d’un tempo, più battaglieri e rivendicativi?
«Ripeto, ai frutti del Sinodo possiamo anche guardare in una chiave sociologica o culturale, e sicuramente ne trarremmo indicazioni preziose. Ma così facendo ci fermiamo alla superficie: è una riflessione molto più profonda e meditata – un discernimento autentico, in cui ho percepito realmente l’azione dello Spirito – quella che ha portato i nostri giovani a dire che loro, per primi, hanno bisogno degli adulti. Certo, muovono critiche e indicano orizzonti nuovi, ma non sono posizioni rancorose, né tantomeno provocatorie: esprimono l’auspicio di poter lavorare insieme, e dicono chiaro il desiderio di voler essere cristiani, di “essere parte” della propria comunità».
A patto, par di capire, che le comunità comprendano il bisogno di cambiare. Che peraltro non è solo una esigenza dei giovani…
«Ci apprestiamo a vivere un anno pastorale intenso, sotto tanti punti di vista. Penso ai consigli pastorali parrocchiali che sono stati appena rinnovati: ecco, io spero che quella Lettera venga presa in mano e letta con serietà, con impegno. Evitiamo un equivoco, una tentazione che spesso si ripresenta: non si tratta di “fare cose” per i giovani, magari diverse, più al passo con i tempi. La sfida è essere comunità vive, attraenti, che accolgano i giovani e li facciano sentire a casa loro. E lo stesso vale per la pastorale giovanile, che dopo il Sinodo è chiamata a iniziare nuovi percorsi: non è importante l’ufficio, né dobbiamo esaurire le energie nel confezionare un elenco di eventi altisonanti. L’importante è la vita delle nostre comunità, a cui dobbiamo offrire appoggi, formazione, lasciandole poi libere di vivere al meglio la propria identità».
In concreto?
«Un giovane rimane all’interno della comunità parrocchiale, e contribuisce a renderla vitale, solo se la riconosce come propria. E soprattutto se sente di non essere solo nel suo desiderio di una vita cristiana. Per noi è una condizione fondamentale, perché soltanto chi vive un’esperienza positiva della propria comunità, potrà poi sentirsi “in missione” nei luoghi di lavoro, di studio, del tempo libero».
Il Sinodo ha come tema anche il discernimento vocazionale. Un altro dei campi in cui la Chiesa di Padova è impegnata in uno sforzo di rinnovamento della proposta.
«La vocazione non può e non deve essere impegno di pochi preti “specializzati”, l’ho ribadito tante volte. Soluzioni facili non ce ne sono, ma è chiaro che solo una vita di fede autentica e profonda, solo l’incontro personale con Gesù e il Vangelo possono portare alla scelta di donare interamente la propria esistenza. A questo devono tendere i percorsi che offriamo, a creare contesti in cui le persone (e i giovani innanzitutto) possano interrogarsi con serietà. Nel momento in cui le nostre comunità non sanno coltivare e vivere questa dimensione spirituale – o finiscono per essere dei “contenitori di proposte” – non solo è difficile veder fiorire vocazioni ma gli stessi preti rischiano di vivere la propria vocazione con maggiore fatica».
La vita affettiva e la sessualità sono, e non da oggi, due degli ambiti in cui è più evidente la distanza tra il messaggio della Chiesa e la vita dei giovani. Lo “scisma sommerso”, come lo definì Pietro Prini già nel 1999, sarà all’attenzione del Sinodo?
«Non possiamo non affrontarlo, perché è uno dei più dolorosi motivi di separazione e incomprensione che oggi abbiamo di fronte. E sarebbe sbagliato pensare che sia un problema dei giovani, quando invece riguarda tutte le generazioni, anche quelle già con i capelli bianchi. La Chiesa è chiamata a ripensare la gestione della vita affettiva, il senso della sessualità nella vita delle persone, per capire quale contributo la fede può dare a una delle fondamentali dimensioni umane. Amoris laetita, da questo punto di vista, offre indicazioni illuminanti, su cui forse ci si è soffermati troppo poco riducendo la discussione al tema della comunione ai divorziati. Ma qui sono in gioco temi altrettanto e forse più significativi: le convivenze, l’omosessualità, il numero crescente di single e la loro vita affettiva, il senso stesso di scelte come il celibato e la verginità che oggi abbiamo bisogno di ri-esprimere, ri-giustificare. Per fortuna, almeno a leggere la Lettera dei nostri giovani, non siamo di fronte al rifiuto del magistero. I giovani chiedono di essere aiutati a capire, per vivere la propria sessualità in maniera autentica e liberante. Sta a noi adulti, e a noi vescovi per primi, saper accogliere le loro domande».
La telefonata della segreteria generale è arrivata a fine luglio, comunicando la scelta di papa Francesco di nominarlo membro del Sinodo dei vescovi che dal 3 al 28 ottobre affronterà il tema de “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. Un breve (e comprensibile) momento d'incertezza, uno sguardo al calendario e qualche necessario cambiamento (la visita pastorale: "salta" giocoforza la prima tappa in programma a Zugliano e Zanè), la scelta di fidarsi e affidarsi: dal 3 ottobre, appena tornato dal viaggio in Turchia con i preti giovani, il vescovo Claudio sarà a Roma per un mese che promette di rivelarsi l'ennesimo snodo cruciale nell'impegno di rinnovamento della Chiesa che è la cifra più profonda del magistero di Francesco.
Lo incontriamo a Villa Immacolata, nel primo giorno della settimana dedicata ai preti che hanno cambiato il loro servizio pastorale: un tema, quello del cambiamento, che percorre come auspicio anche la Lettera che i giovani del Sinodo hanno rivolto alla Chiesa di Padova e che quest'anno attende di essere presa in mano dalle comunità, come prezioso contributo alla più generale riflessione sull'identità della parrocchia. Ma andiamo con ordine.
«Quella che mi appresto a vivere sarà sicuramente un'esperienza densa di incontri che al mio ritorno potranno arricchirci come diocesi. Al tempo stesso, se ce ne sarà l'opportunità, vorrei portare e condividere con altri la nostra esperienza, che è il frutto di un lavoro per tanti aspetti straordinario».
Sicuramente la scelta di inserire il vescovo di Padova tra i membri di “nomina pontificia” è figlia anche del Sinodo dei giovani...
«Credo soprattutto delle modalità che abbiamo scelto. Cinquemila giovani coinvolti, un'assemblea sinodale di 160 ragazzi che si sono fatti carico di leggere e discernere i segni dello Spirito nelle relazioni dei gruppi sinodali, una Lettera finale di una serietà e profondità inedite, indicano una strada e ci lasciano una lezione: se abbiamo la voglia e l'intelligenza di dare fiducia ai giovani, scopriamo nel loro cuore grandi risorse umane e spirituali. Insisto su quest'ultimo termine, perché credo sia la chiave di volta dell'intera riflessione che la nostra Chiesa è chiamata a fare: il loro è stato un cammino di alta spiritualità, che provoca ciascuno di noi ad andare oltre, a riflettere sulla qualità della nostra vita spirituale. Abbiamo scoperto di avere giovani capaci perfino di superare noi adulti, quando qualcuno li pensava, al più, capaci di obbedirci...».
C’è una speranza che la accompagna in vista del Sinodo?
«Che la nostra Chiesa, tutta, sia capace di dare piena fiducia ai giovani! Ciò significa non fermarsi a guardarli con la lente del sociologo, non considerarli tutti uguali, ma ciascuno, prezioso, in virtù dell’unicità della sua vocazione. Spero, insomma, che troviamo la forza di metterci noi, per una volta, alla scuola dei giovani».
Quel che emerge dalla Lettera è un rapporto tra generazioni segnato più dal desiderio di condividere un cammino che da contrapposizioni o fratture. I giovani di oggi sono diversi da quelli d’un tempo, più battaglieri e rivendicativi?
«Ripeto, ai frutti del Sinodo possiamo anche guardare in una chiave sociologica o culturale, e sicuramente ne trarremmo indicazioni preziose. Ma così facendo ci fermiamo alla superficie: è una riflessione molto più profonda e meditata – un discernimento autentico, in cui ho percepito realmente l’azione dello Spirito – quella che ha portato i nostri giovani a dire che loro, per primi, hanno bisogno degli adulti. Certo, muovono critiche e indicano orizzonti nuovi, ma non sono posizioni rancorose, né tantomeno provocatorie: esprimono l’auspicio di poter lavorare insieme, e dicono chiaro il desiderio di voler essere cristiani, di “essere parte” della propria comunità».
A patto, par di capire, che le comunità comprendano il bisogno di cambiare. Che peraltro non è solo una esigenza dei giovani…
«Ci apprestiamo a vivere un anno pastorale intenso, sotto tanti punti di vista. Penso ai consigli pastorali parrocchiali che sono stati appena rinnovati: ecco, io spero che quella Lettera venga presa in mano e letta con serietà, con impegno. Evitiamo un equivoco, una tentazione che spesso si ripresenta: non si tratta di “fare cose” per i giovani, magari diverse, più al passo con i tempi. La sfida è essere comunità vive, attraenti, che accolgano i giovani e li facciano sentire a casa loro. E lo stesso vale per la pastorale giovanile, che dopo il Sinodo è chiamata a iniziare nuovi percorsi: non è importante l’ufficio, né dobbiamo esaurire le energie nel confezionare un elenco di eventi altisonanti. L’importante è la vita delle nostre comunità, a cui dobbiamo offrire appoggi, formazione, lasciandole poi libere di vivere al meglio la propria identità».
In concreto?
«Un giovane rimane all’interno della comunità parrocchiale, e contribuisce a renderla vitale, solo se la riconosce come propria. E soprattutto se sente di non essere solo nel suo desiderio di una vita cristiana. Per noi è una condizione fondamentale, perché soltanto chi vive un’esperienza positiva della propria comunità, potrà poi sentirsi “in missione” nei luoghi di lavoro, di studio, del tempo libero».
Il Sinodo ha come tema anche il discernimento vocazionale. Un altro dei campi in cui la Chiesa di Padova è impegnata in uno sforzo di rinnovamento della proposta.
«La vocazione non può e non deve essere impegno di pochi preti “specializzati”, l’ho ribadito tante volte. Soluzioni facili non ce ne sono, ma è chiaro che solo una vita di fede autentica e profonda, solo l’incontro personale con Gesù e il Vangelo possono portare alla scelta di donare interamente la propria esistenza. A questo devono tendere i percorsi che offriamo, a creare contesti in cui le persone (e i giovani innanzitutto) possano interrogarsi con serietà. Nel momento in cui le nostre comunità non sanno coltivare e vivere questa dimensione spirituale – o finiscono per essere dei “contenitori di proposte” – non solo è difficile veder fiorire vocazioni ma gli stessi preti rischiano di vivere la propria vocazione con maggiore fatica».
La vita affettiva e la sessualità sono, e non da oggi, due degli ambiti in cui è più evidente la distanza tra il messaggio della Chiesa e la vita dei giovani. Lo “scisma sommerso”, come lo definì Pietro Prini già nel 1999, sarà all’attenzione del Sinodo?
«Non possiamo non affrontarlo, perché è uno dei più dolorosi motivi di separazione e incomprensione che oggi abbiamo di fronte. E sarebbe sbagliato pensare che sia un problema dei giovani, quando invece riguarda tutte le generazioni, anche quelle già con i capelli bianchi. La Chiesa è chiamata a ripensare la gestione della vita affettiva, il senso della sessualità nella vita delle persone, per capire quale contributo la fede può dare a una delle fondamentali dimensioni umane. Amoris laetita, da questo punto di vista, offre indicazioni illuminanti, su cui forse ci si è soffermati troppo poco riducendo la discussione al tema della comunione ai divorziati. Ma qui sono in gioco temi altrettanto e forse più significativi: le convivenze, l’omosessualità, il numero crescente di single e la loro vita affettiva, il senso stesso di scelte come il celibato e la verginità che oggi abbiamo bisogno di ri-esprimere, ri-giustificare. Per fortuna, almeno a leggere la Lettera dei nostri giovani, non siamo di fronte al rifiuto del magistero. I giovani chiedono di essere aiutati a capire, per vivere la propria sessualità in maniera autentica e liberante. Sta a noi adulti, e a noi vescovi per primi, saper accogliere le loro domande».