Ecuador. Fare parrocchia anche nella selva. Nel 1957 iniziò con lo sbarco di don Vincenzo Barison la missione accanto ai Giuseppini
Le origini. Mentre sta per concludersi la presenza dei fidei donum padovani in Ecuador, la Difesa ricorda la “partenza” di questo lungo cammino iniziato 63 anni fa
La voce di don Vincenzo Barison tradiva ancora l’emozione quando raccontava, a cinquant’anni di distanza, di quel 26 giugno 1957, quando aveva messo per la prima volta piede in Ecuador, primo prete diocesano in quel Paese. «Sono partito da Napoli a bordo della motonave di linea Marco Polo, della società Italia di navigazione; ci abbiamo messo 27 giorni a traversare l’Atlantico e a giungere a Guayaquil, passando per il canale di Panama; e un giorno intero ad arrivare, su un autobus senza finestrini né sedili, a Quito dove ho ricevuto il primo saluto, via radio dall’Amazzonia, del vescovo Massimiliano Spiller». Era stato il presule giuseppino, originario di Carrè, parrocchia vicentina in Diocesi di Padova, a chiedere al vescovo Bortignon l’aiuto di due sacerdoti che andassero a prestar servizio nel vicariato apostolico del Napo, nella provincia ecuadoriana collocata nel bacino del Rio Napo, affluente del Rio delle Amazzoni.
Negli anni Cinquanta la Chiesa di Padova si apriva alla collaborazione missionaria mandando due preti diocesani in Brasile e uno in Argentina. Pochi mesi prima, il 21 aprile, era stata pubblicata l’enciclica Fidei donum in cui papa Pio XII, pur con lo sguardo rivolto prevalentemente all’Africa, rivoluzionava l’attività missionaria della Chiesa coinvolgendovi direttamente sacerdoti diocesani e laici.
L’invio di don Barison in Ecuador non si configura ancora con le caratteristiche che prenderà con i fidei donum, di una collaborazione organica e duratura tra Diocesi su progetti definiti attraverso precise convenzioni. Il sacerdote padovano viene “affidato” integralmente nelle mani del vescovo giuseppino che lo utilizzerà a sua discrezione, accanto ai suoi presbiteri e religiosi, per l’evangelizzazione del vasto territorio amazzonico, su cui erano insediate una decina di parrocchie. Il vicariato del Napo era stato costituito nel 1871 e affidato ai Gesuiti, che erano però stati allontanati dal Paese all’inizio del 20° secolo, ai tempi della presidenza di Eloy Alfaro. La missione fu quindi affidata prima ai Domenicani e poi, nel 1922, ai Giuseppini.
Don Barison portò in Amazzonia la sua baldanza di grande camminatore e di comunicatore spontaneo: gli furono affidate le parrocchie di Puerto Napo, dove è rimasto cinque anni, Arajuno, Chaco dal clima più favorevole perché collocata a 1.100 metri di altitudine, Curaray al confine con il Perù, Tzatzayacu “fiume di sabbia”. Chiesette di legno e lunghi viaggi in canoa e a piedi, per raggiungere periodicamente le comunità più lontane.
Il generoso servizio pastorale di don Vincenzo dovette essere sospeso nel Napo (non in Ecudor, in cui sarebbe tornato) nel 1973 per ragioni di salute: il suo cuore non teneva il ritmo del suo entusiasmo. Nel frattempo erano giunti nel vicariato giuseppino altri due preti padovani: don Francesco Montemezzo e don Tarcisio Marin. Il primo, inviato nel 1963, vi rimase 11 anni, fino al 1974, prima come parroco di Baeza, poi di Archidona, una comunità molto estesa dove vivevano diecimila indios. Quando se ne andò, l’Amazzonia ecuadoriana stava subendo i primi assalti di una modernità speculativa, con la scoperta del petrolio e la realizzazione della prima carrabile. Nel 1975, alla conclusione di un periodo di riposo, fu dirottato dal vescovo in Brasile, dove è tuttora.
Nel 1971 era giunto nel Napo anche don Tarcisio Marin che venne inviato prima come collaboratore ad Archidona, con don Montemezzo, a Puerto Napo, con padre Cesar Ricci, a Cotundo sede del santuario della Virgen del Quinche; quindi si fermò a Ahuano. Con la partenza di don Montemezzo resterà unico diocesano in Amazzonia fino a quando il vicario generale mons. Alfredo Magarotto non gli ordinò di andare in appoggio di don Vincenzo Barison, che era tornato in Ecuador e si era insediato a San Josè de Minas, grande parrocchia dell’arcidiocesi di Quito.
L’attività pastorale dei tre preti padovani nel vicariato apostolico del Napo è pienamente integrata con quella dei missionari del Murialdo. Padre Mario Perin, un giuseppino originario di Bastia, ricordava: «Tra noi e i diocesani c’è sempre stata un’ottima integrazione: il lavoro pastorale era molto simile, anche se i preti secolari hanno un più forte contatto con la gente: sentono la parrocchia come la loro famiglia mentre per noi è prioritario il contatto con la comunità dei confratelli». La pastorale si svolge a due livelli: nella sede parrocchiale, dove si dice messa e si amministrano i sacramenti in chiesa, si formano i catechisti, si organizzano attività socio-assistenziali; la “missione al campo”. I preti viaggiano ore, via terra e via fiume, non senza rischi, in zone prive di strade, per giungere nelle piccole comunità, fare catechesi, celebrare messa, amministrare i sacramenti. «Si cercava di portare la Bibbia tra la gente – ricorda don Montemezzo – perché la fede avesse una maggiore coscienza e questo ha creato cattolici più partecipi, una Chiesa più vera».
L’Amazzonia invita alla conversione integrale
Dall’Amazzonia. dove hanno operato anche i preti padovani, giunge un messaggio di conversione integrale: pastorale, culturale, ecologica. Lo dichiara il documento finale del sinodo panamazzonico di un anno fa.
Dopo l’Ecuador il Brasile e il Perù
Dei tre preti padovani inviati in Amazzonia, don Vincenzo Barison è tornato nel 1981 a casa ed è morto di recente; don Francesco Montemezzo è in Brasile, a Petropolis; don Tarcisio Marin, diventato comboniano, opera in Perù.