Chiuso in canonica, ma con la comunità stretta intorno. Don Tommaso Beltramelli e la sua lotta alla malattia
Da fine ottobre a metà dicembre don Tommaso Beltramelli, parroco dell'unità pastorale di Baone, ha affrontato da solo in canonica il Coronavirus. È stato un momento faticoso di prova, accompagnato da una profonda revisione interiore e supportato da tutta la forza che proveniva dalla sua comunità che si è presa cura di lui.
La luce serafica dei colli si fa spazio dentro la canonica di Baone. Annida la sua pace tra le mura, la concentra nel punto della piccola stanza dov’è poggiata la Bibbia: un cuscino a terra per la preghiera, a fianco la chitarra che custodisce da sempre il modo profondo e autentico con cui ama esprimersi don Tommaso Beltramelli, che dal 2014 guida l’unità pastorale di Baone.
Sono stati quaranta giorni di isolamento completo i suoi, a combattere, in estrema solitudine fisica, contro il Coronavirus. La paura non si è fatta attendere, ma don Tommaso era costantemente collegato con il mondo fuori che lo ha accompagnato passo dopo passo attraverso la prova che stava attraversando. «Il mio medico, la dottoressa Antonella Baù, non mi ha mai lasciato solo; mi ha sorpreso la sua rassicurante e costante presenza telefonica, la sicurezza con cui mi ha guidato anche nel momento più critico». Appena il test molecolare lo ha decretato “negativo”, la dottoressa Baù non ha esitato un secondo ed è corsa a trovare don Tommaso, a gioire con lui perché, dentro la malattia, il rapporto umano ha trovato spazio per consolidarsi.
Il primo novembre è stato il giorno che don Tommaso ricorda come «infinito. Mi sono spaventato per le mie condizioni, l’esperienza è stata tremenda: più tardi ho compreso che il mio grande limite sta proprio lì, lungo la frontiera della paura. Ed è qui che il Signore vuole che io lavori perché la mia fiducia in lui cresca».
L’interminabile pomeriggio al pronto soccorso di Schiavonia è ormai segnato dentro alla storia di don Tommaso, gli servirà sempre ricordare quegli istanti dentro a quel limbo sanitario, fatto necessariamente di visite e burocrazia, in attesa di capire fino a che punto stesse male, con una polmonite bilaterale in un corpo completamente sano fino al giorno prima. «Ho toccato la mia fragilità e la mia solitudine di fronte alla malattia non è stata facile da gestire. La sera, quando l’ambulanza mi ha riaccompagnato qui in canonica, ho chiesto a mia sorella Benedetta di mangiare restando al telefono con lei, mentre preparava la cena a sua figlia. Temevo di stare ancora da solo e mi bastava sentire il rumore della sua cucina». La battaglia è stata estenuante, segnata da una debolezza infinita provocata dal Covid. «Se svenivo di notte da solo, cosa mi sarebbe accaduto?».
Nella prova bastano due parametri per valutare l’amicizia e la fraternità: esserci e dirsi sempre la verità. Le comunità di Baone, Calaone e Valle San Giorgio si sono unite intorno al loro parroco ammalato: chi aveva il cellulare acceso anche di notte, chi, per discrezione, non si faceva vivo, ma subito dopo la malattia ha mandato un messaggio, ha fatto una visita inaspettata: «Ho pregato per te, tutti i giorni. Non volevo disturbarti». E niente in parrocchia si è fermato: le celebrazioni sono state assicurate da altri preti, la catechesi è proseguita e, ogni giorno a turno, c’era chi preparava il pranzo e la cena al parroco. E c’è chi non smette di farlo: «Iva è stata una scoperta! Sto respirando in questa terra una disponibilità enorme: se chiedi, ti viene dato molto di più. La dimensione pastorale in questi ultimi mesi si è riaccesa: anche noi cristiani, come tutti gli altri, non siamo fatti di riunioni, ma di relazioni. Ci stiamo passando la Croce e dobbiamo riconoscerci ancora di più nelle mani e nel cuore di Dio».
Se esiste qualcuno che vive la malattia senza sconforto, questo è il vero miracolo. «Ho uno spirito nuovo adesso quando incontro gli ammalati: non ho fretta di andarmene, conosco l’attesa trepidante che precede la visita di qualcuno che spezzi la monotonia del tempo. Una delle domande che adesso sempre più spesso faccio loro è se restino soli di notte, perché il buio è opprimente per chi sta male, l’angoscia prende il sopravvento. Durante la malattia pregavo che arrivasse presto il giorno: i pensieri di notte si dilatano, le ore diventano interminabili e temi che possa accaderti qualcosa mentre sei solo, senza nessuno accanto».
La preghiera ha cambiato forma nella malattia
Il Coronavirus ti indebolisce all’inverosimile. Don Tommaso non pensava ad altro se non alle medicine da prendere, alla biancheria da lavare perché tutto fosse igienizzato spesso. «Non riuscivo a pregare come prima, non avevo neanche più la forza di celebrare. Poi un giorno un’amica – anche lei era ammalata ed era a casa con i figli da accudire – mi ha telefonato e mi ha scosso: “Ocio, don, che Lui non ti trovi impreparato!”. La notte ho spostato un materasso tra il Santissimo e l’icona di Maria e ho semplicemente detto: “Signore, fai tu!”. Di giorno ascoltare il rosario della mia comunità in streaming mi dava pace e percepivo la dolcezza di Maria nella ripetizione di questa preghiera per me così familiare. Mi sono ritrovato a pregare in modo differente e mi accorgevo di pregare anche quando pensavo di non farlo. Ho un mucchio di strada da fare… Con la fede non si scherza».
E proprio dentro alla malattia, sono scaturite le parole di due nuove canzoni di don Tommaso: Un momento in più e Inutile.