Al liceo Romano Bruni di Padova l'assemblea d'istituto è con i richiedenti asilo

Un'iniziativa voluta dagli stessi studenti, un modo per superare di slancio le barriere del pregiudizio che anche i media, fornendo notizie generali e spersonalizzate rischiano di erigere. Così il prof. Okolicsanyi e tre giovani nigeriani, Frank, Obinna e Osaror approdati in Italia su un barcone direttamente dalla Libia, sono diventati testimoni d'eccezione nell'assemblea d'istituto.

Al liceo Romano Bruni di Padova l'assemblea d'istituto è con i richiedenti asilo

“Emergenza immigrazione, migliaia di profughi”, “Altri due barconi affondano: 200 morti”, “Dodici barconi in arrivo a Lampedusa”, “Mediterraneo: si ribalta un altro barcone di immigrati”.
Questo è ciò che si sente alla radio ormai quotidianamente, è ciò che si legge nei giornali, che si vede alla TV. Sono titoli crudi, diretti, ma ora quasi non ci fanno più effetto.
Nelle strade o nelle case si replica così: “Ma cosa sono venuti a fare qua? A rubare il lavoro agli italiani?”, “Non potevano starsene nel loro paese?”, “Che tornino da dove sono venuti!”.
Ma noi sappiamo chi sono queste persone e che storia hanno? Sappiamo cosa vuol dire abbandonare la propria famiglia, le proprie cose, il paese dove si è nati? Sappiamo cosa significa andarsene dal proprio paese nella speranza di trovare qualcosa di meglio?
Per rispondere a queste domande sabato 7 novembre noi studenti del Liceo Romano Bruni abbiamo organizzato un’assemblea di istituto e quello che, studenti e professori, ci siamo trovati davanti è stato un pezzo di mondo, un pezzo di realtà che mai era capitato di sentire così vicino. Il professor L. Okolicsanyi, immigrato dall’Ungheria nel ’57, e Frank, Obinna e Osaror, tre ragazzi nigeriani arrivati in Italia con i barconi nei mesi scorsi, ci hanno raccontato la loro esperienza e ci hanno permesso di capire cosa significa davvero essere profughi.

La prima storia: dall'Ungheria all'Italia
Il professor Laos Okolicsanyi ha esordito mostrando un'immagine con “La fuga in Egitto” di Giotto, raccontando la storia del popolo ungherese, giunto dalla Russia. Quindi ha aggiunto: “Emigrare, fuggire è proprio dell’uomo. Da sempre”. Poi ha iniziato il suo racconto.
Nel settembre del 1956 il professor Laos Okolicsanyi aveva diciotto anni, il diploma di scuola in mano e il desiderio di poter frequentare la facoltà di medicina all’università. Ma il colloquio con il commissario del partito comunista ungherese non va bene, la famiglia ha bisogno di lui e così inizia a lavorare come manovale, ma il 23 ottobre scoppia in Ungheria la rivoluzione. Passano poche settimane e il 4 novembre si ritrova guardia nazionale con un fucile in mano la notte del 4 novembre è la notte dell’attacco russo, che dura dieci giorni. Repressioni, impiccagioni, distruzioni. La sua famiglia parte per l’Austria e Okolicsanyi deve decidere cosa fare perché già alcuni suoi compagni sono stati condannati a morte. Cosa portarsi via? Quattro cose: i documenti (per far capire chi sei e cosa fai), un atlante (per capire dove vai), qualche cosa da mangiare e dei soldi.
Così partirono da Budapest il 1° dicembre, per arrivare in Austria di notte portati clandestinamente da alcuni contadini che chiedono loro tutti i soldi che hanno. Da lì la sua storia diviene fortunata: Laos desiderava ancora frequentare l’università, e grazie all’incontro con una persona riesce a iscriversi all’università di Padova, con in mano solo un foglietto che riporta la scritta in italiano “Sono uno studente profugo”. Il problema era parlare l’italiano per farsi capire. A Padova conosce altri ragazzi ungheresi, e viene accompagnato in questura a chiedere l’asilo politico e il permesso di soggiorno.
Infine ha concluso dicendo agli studenti: “Ricordate queste parole profugo, migrante, rifugiato politico, clandestino. Non sono la stessa cosa e aprono storie di uomini e donne in carne ed ossa”.

La seconda storia: dalla Nigeria all'Italia
Quella di Frank, Obinna e Osaror, sembra una storia diversa ma non è così: la guerra, la morte, l’ideologia, la fuga senza la famiglia, la mancanza di pane, la necessità dei documenti senza i quali non c’è futuro, andare in mano a trafficanti di uomini, la speranza possibile.
Sono tutti e tre nigeriani, rimasti orfani di padre fin da piccoli, e nelle proprie famiglie sono loro a portare a casa il pane. Alla loro situazione di estrema povertà si aggiunge il fatto di essere cristiani e questo li porta tutti e tre a essere perseguitati da gruppi terroristici fondamentalisti come quello di Boko Haram: “Convertiti. Vieni con noi o ti uccidiamo.” Questa la scelta. Uno di loro perde due fratelli perché hanno rifiutato l’offerta.
Quando le situazioni precipitano in momenti diversi Frank, Obinna e Osaror sono costretti a scappare per non rischiare di essere uccisi anche loro; vengono continuamente perseguitati, cercati e devono fuggire. Si dice che in Libia si possa lavorare. Attraversano così il deserto del Sahara in autobus fatiscenti in mano a commercianti di uomini, e molti loro compagni di viaggio non sopravvivono, muoiono e i loro corpi vengono abbandonati sulla strada. Uno dei ragazzi racconta che nel tragitto perde il fratello ed è costretto a lasciarlo lì perché “bisogna andare avanti”.
In Libia, tutti e tre riescono in un primo momento a trovare lavoro come elettricista, manovale e contadino, ma sono pagati pochissimo e altri come loro vivono praticamente in schiavitù dei padroni arabi. Ma la guerra civile libica travolge tutto ed è impossibile rimanere: la loro vita vale pochissimo perché sono neri e sono cristiani. Aiutati da alcune persone Frank, Obinna e Osaror raggiungono le rive del Mediterraneo e riescono ad imbarcarsi per l’Italia.
Uno di loro sale su un gommone che hanno dovuto gonfiare e che purtroppo si sfascia ancora in acque libiche dove il soccorso italiano non può intervenire, lasciando persone in mare per un’ intera notte. La morte è ancora loro compagna di viaggio.
Finché l’Italia li salva, approdano a Lampedusa o in Sicilia e arrivano a Padova.

La nostra storia: Ungheria, cinquant’anni fa. Nigeria, oggi
Il dramma si sente, è a un metro da noi ragazzi, e senza filtri televisivi. È la loro realtà, è la loro storia, è la nostra. Il prof. Okolicsanyi è ora anziano e dà speranza ai ragazzi nigeriani e noi assistiamo a questo che sembra quasi un passaggio di consegne.
I visi di Frank, Obinna e Osaror che ci raccontano la loro vita sono scavati dal dolore. Ma non hanno perso la dignità. Gli occhi, sono occhi che hanno visto la morte. Ma ancora brillano di speranza. Ci ringraziano noi italiani per la possibilità che hanno avuto.
Alla fine le domande degli studenti si infittiscono e la assemblea arriva a superare la terza ora.
Uno di loro, alle nostre domande sul futuro, risponde così: “Sono contento qui perché qui ho la libertà. L’Italia è il primo paese in cui non ho più sentito continuamente degli spari. Prego Dio per sistemare i documenti e vivere qui”. Frank vuole studiare Italiano, Osaror agronomia, Obinna approfondire l’elettrotecnica.
Alla domanda sulla situazione nel loro paese rispondono che il governo deve trattare con Boko Haram, la prima cosa è la pace anche se è difficile trattare con gente che non si fa scrupolo ad ammazzare le persone.
Poi chiediamo cosa fanno e come sentono la nostra accoglienza e così ringraziano il comune e le associazioni e la parrocchia di Bagnoli dove vivono e ci raccontano le iniziative fatte per loro.
Alla domanda “Come fate ad avere ancora la fede dopo tutto quello che avete vissuto?” la risposta è che non è colpa di Dio tutto questo.
La mattinata continua: il professore torna a casa, i ragazzi nigeriani fanno educazione fisica con noi. Poi ci salutano e ci ringraziano perché “molte volte abbiamo incontrato gente che ci classifica in good guys o bad guys, con voi invece ci siamo sentiti ben, leggeri!”.
Ed è impressionante perché queste esperienze vissute (e sono queste che dovrebbero passare alla televisione) ci fanno scoprire fratelli. Rendono facile dire “ti accolgo”.

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