Padre Solalinde, il prete dei disperati alla frontiera del Messico
Padre Alejandro Solalinde dal 2011 vive sotto scorta armata; sulla sua testa la malavita organizzata ha messo una taglia da un milione di dollari. Ma questo non ferma la sua attività: dalla sua casa di accoglienza nel sud del Messico continuano a transitare, ogni anno, più di 20 mila disperati, decisi a sfidare la sorte in un viaggio verso gli Stati Uniti alla ricerca di un futuro.
«I migranti sono un segno dei nostri tempi. Sono la riserva di spiritualità del mondo, perché ci trasmettono l’esperienza del cammino. Sono un momento di grazia per l’umanità: Dio ci sta parlando attraverso di loro».
Queste le parole di padre Alejandro Solalinde, l’uomo che per difendere i migranti sudamericani ha sfidato i cartelli della droga.
Dal 2011 vive sotto scorta armata; sulla sua testa la malavita organizzata ha messo una taglia da un milione di dollari. Ma questo non ferma la sua attività: dalla sua casa di accoglienza nel sud del Messico continuano a transitare, ogni anno, più di 20mila disperati, decisi a sfidare la sorte in un viaggio verso gli Stati Uniti alla ricerca di un futuro.
Una storia raccolta all’interno di un libro, I narcos mi vogliono morto, scritto assieme alla giornalista di Avvenire, Lucia Capuzzi, da pochi giorni pubblicato in esclusiva mondiale dalla Editrice missionaria italiana.
È il racconto dell’esperienza di un prete messicano, che fino al 2005 vive la propria vita come un qualsiasi sacerdote: fa il parroco, il professore, l’assistente dell’Azione Cattolica, studia psicologia; la vita di un «prete borghese» la definisce oggi, quella di un «buon religioso, ateo nella pratica».
Poi l’incontro che cambia la vita con gli indocumentados, gli immigrati centroamericani senza documenti, senza diritti, senza nome; gli ultimi tra gli ultimi. Ne rimane segnato, comprende che la sua vera vocazione è quella di stare al loro fianco, assisterli nel cammino.
Fonda nel 2007 Hermanos en el camino, un centro di accoglienza situato nella cittadina di Ixtepec, nel sud del Messico, un «avamposto della speranza» per usare le parole di don Luigi Ciotti nella prefazione del testo su Solalinde. Qui i migranti possono riposarsi, mangiare, trovare rifugio dalla polizia e soprattutto dai narcos. Più volte minacciato di morte dagli stessi cartelli della droga, il prete non abbassa la testa, anzi, denuncia le violenze e il mercato degli esseri umani a cui il governo messicano assiste in compiacente silenzio.
La sua battaglia riesce ad ottenere l’attenzione dei mass media di tutto il mondo, rendendolo troppo scomodo per i narcotrafficanti, pronti a premiare lautamente chiunque lo faccia fuori.
Nel 2012 riceve il l’appoggio di Amnesty International, che da vita a una campagna in suo sostegno, mentre nei primi mesi di quest’anno l’Accademia di Oslo accetta la sua candidatura al Premio Nobel per la pace, proposta dall’Universidad Autónoma del Estado de México.
Per comprendere a fondo l’esperienza di padre Solalinde, occorre comprendere il Messico, Paese cerniera tra nord e sud del mondo, corridoio di passaggio per i centroamericani che si mettono in cammino per costruire il loro futuro altrove.
Si stima che ogni anno mezzo milione di migranti transiti dal Messico diretto negli Stati Uniti, nella speranza di sfuggire alla morte portata dai conflitti civili e dal narcotraffico dei loro Paesi. Questi indocumentados, provenienti per l’80% da Guatemala, Honduras e El Salvador, attraversano il territorio messicano, spesso a bordo dei treni merci, in bilico su vagoni fatiscenti, facili prede dei narcos, oggi inseriti anche nel traffico di esseri umani.
La droga rimane il loro core business, ma il giro d’affari criminale è arrivato ad inglobare altre attività, spingendo all’estremo la legge capitalista della domanda e dell’offerta: tutto è merce, tutto ha un prezzo; esseri umani, bambini, organi non fanno eccezione.
E qui si inseriscono gli indocumentados, “materia prima” a basso prezzo, un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Le bande armate attendono i migranti lungo le rotte più battute; fermano i convogli ferroviari e rapiscono decine e decine di persone di ogni età.
Questi disperati vengono tenuti prigionieri per giorni, seviziati, torturati senza pietà alcuna.
I più fortunati di loro, quelli che hanno già un aggancio negli Stati Uniti, sono oggetto di un riscatto; per tutti gli altri il futuro è segnato.
I bambini sani vanno ad alimentare il traffico illegale di organi; ragazze e giovani donne diventano prostitute; gli uomini sono costretti ad “arruolarsi” come guerriglieri negli scontri armati tra cartelli rivali.
Difficile quantificare la portata del fenomeno
L’ultima stima fatta tra 2009 e 2010 dalla Commissione nazionale per i diritti umani parlava di 20mila sequestri all’anno, in media 54 al giorno. Ma il numero è riferito solo alle vittime riconosciute, quelle di cui si è riusciti a stabilire l’identità. Di tanti cadaveri, ritrovati casualmente all’interno di fosse comuni, non si conoscerà mai il nome.
E chissà quanti giacciono ancora nascosti sotto metri di terra messicana. Il rischio, dunque, è che quella rappresentata dalla Commissione sia soltanto la punta di un iceberg, le cui dimensioni sono solo immaginabili.
In mezzo a questo dramma dell’umanità sta padre Solalinde.
Le sue parole sono un fiume in piena; prima ancora che con la voce comunica con gli occhi. Gli occhi di chi non vuole fare del vuoto proselitismo; gli occhi vivi di chi ad una causa ha deciso di dedicare la vita; gli occhi di chi, per quella causa, la vita è pronto a perderla.
La sua denuncia non risparmia nessuno: il governo corrotto, definito una«narco-cleptocrazia», così come la Chiesa locale che alla malavita«organizzata e autorizzata» non ha mai trovato il coraggio di opporsi. Il risultato è il secondo Paese più violento del mondo, con il maggior numero di assassini; quello in cui l’impunità raggiunge il 98%.
Ma le critiche non si limitano al solo Messico
Il problema è più profondo, è strutturale; il problema è il sistema liberale capitalistico, che ha tolto al sud del mondo le «condizioni minime di vita», che svuota l’uomo e «compromette le sue relazioni con se stesso, con Dio e con gli altri». I migranti sono solo un segno di questa «discomposizione sistemica».
Per questo, dice, c’è bisogno di riappropriarsi del Vangelo, di ripartire dall’insegnamento di Gesù: «È arrivato il momento di riconoscere la nostra fede; è arrivato il momento di riconoscere quello che abbiamo fatto col sud».
Andrea Accordini