XXVII domenica del tempo ordinario *Domenica 2 ottobre 2016
Luca 17, 5-10
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
Il grande miracolo
Inizia ottobre, mese dedicato alla chiamata di ogni battezzato a essere testimone, riconoscendo anche il dono fatto ad alcuni di essere missionari ad gentes. È il soffio potente dello Spirito santo che anima la missione. Prendendo a prestito alcune espressioni della seconda lettura: «Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro». San Paolo esorta: «Custodisci, mediante lo Spirito santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato», dove il custodire è dinamismo, investimento di energie e risorse, cioè il contrario del mantenimento dello status quo.«Soffri con me per il vangelo»: in questa domenica dell’ottobre missionario ricordiamo e sosteniamo i cristiani e le persone di qualsiasi fede oppresse dalla persecuzione.
Gli apostoli chiedono la fede dopo che Gesù ha ordinato di perdonare un offensore anche sette volte nello stesso giorno, cosa evidentemente non facile. Il perdono è l’Everest della fede: la verifica della sua verità. Per dare la scalata a questa vetta gli apostoli chiedono la fede e la risposta che Gesù dà disorienta alquanto perché sembrerebbe fuori tema. Il paradosso di Gesù (il gelso ha radici estese e salde; l’acqua salata lo ucciderebbe) suggerisce che lo sbocciare della fede autentica è davvero un... miracolo: Dio in sinergia con l’essere umano. Miracolo non è quando Dio vuole quel che l’uomo vuole ma quando l’uomo vuole quel che Dio vuole. Miracolo è quando nella fede uomo e Dio sono perfettamente in sintonia, con-sonanti.
Corpo a corpo
«Aumenta in noi la fede»: nel misterioso-miracoloso momento in cui diciamo il sì della fede Dio con la sua grazia è già là, presente ed attivo, rispettando ma pure cooperando con la nostra intelligenza e volontà. Gli apostoli insomma intuiscono che la fede è dono e mistero, oltre a essere ricerca e impegno. Il soprassalto dei dodici mi riporta alle conversazioni, anche intense e accorate, con persone che non sentono l’appello della fede; mi ricorda pure l’inquietudine di credenti che percepiscono la fede come incessante ricerca, esposta alla fatica dello smarrimento. La fede è anche lotta, corpo a corpo, con il dubbio mentre ostinatamente si cerca, si chiede, si prega: «Mi hai respinto, mi hai gettato via, non voluta e non amata. Io chiamo, io mi aggrappo, io voglio, ma non c’è Alcuno che risponda. Nessuno, nessuno. Sola... Dov’è la mia fede... Perfino quaggiù nel profondo, null’altro che vuoto e oscurità. Mio Dio, come fa male questa pena sconosciuta… Per che cosa mi tormento? Se non c’è alcun Dio non c’è neppure l’anima, e allora anche tu, Gesù, non sei vero…. Io non ho alcuna fede». Sono parole che santa Teresa di Calcutta ha affidato al suo diario! Questo lato “drammatico” della fede emerge con forza dalle parole di Abacuc nella prima lettura, che vede nelle violenze e iniquità della storia un doloroso interrogativo: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti?».
Con leggerezza
I commentatori fanno notare che le azioni attribuite al servo (arare, pascolare, preparare da mangiare e bere, servire a tavola) descrivono bene coloro che svolgono un servizio nella chiesa. Con chiarezza Gesù riporta al fatto che la chiesa è sua, che fare un servizio riesce, “funziona”, nella misura in cui uno ha chiaro che è servo del vangelo. In concreto: bando ai protagonismi, spazio all’umiltà e a quella serenità che non è assenza di fatiche ma consapevolezza che siamo «lavoratori dipendenti». La chiesa la salva il Signore, rendendo attuale giorno per giorno la potenza d’amore della risurrezione. Noi cooperiamo.
«Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare»: inutile può fare pensare a qualcosa che non serve a niente ma questa interpretazione sarebbe in netto contrasto col fatto che Gesù insiste sul dovere del servo di essere attivo. Piuttosto, scavando nell’etimo del termine, il servo non è indispensabile. Semplificando, qui ci sta il proverbio: «Tutti utili ma nessuno indispensabile». E il «quanto dovevamo fare» rimanda a chi è in debito ed è chiamato a rifondere: hai l’onore di servire Cristo nella chiesa, l’essere stato chiamato a lavorare – gratis – nella chiesa è un dono. E allora impegnati... con leggerezza e con/per Grazia, senza far pesare la cosa.
Peccato di omissione
Un attimo di distrazione e nella lunga sequenza di ringraziamenti che il parroco sciorina alla fine della celebrazione della cresima salta quello ai coristi, che tra l’altro avevano cantato proprio bene. Seguono musi lunghi e commenti risentiti di alcuni; conseguentemente il povero parroco si sente in colpa e da allora in avanti va in tensione ogni volta ritiene ci siano ringraziamenti da fare. Con il risultato buffo che alle volte, per evitare il rischio di saltare qualcuno, aggiunge il grazie a persone in realtà non coinvolte. «Siamo servi inutili»?
Capita che proprio gli operatori pastorali più dediti, qualche prete, possano inciampare su questo: vivere come un peso il servizio, pretendere di essere ringraziati in modo pubblico, supporsi indispensabili ecc. Praticare la riconoscenza è certamente evangelico; riconoscenza, più che agli esseri umani, al Signore che non si lascia vincere in generosità da nessuno. Come esseri umani abbiamo psicologicamente bisogno di essere riconosciuti e incoraggiati; come cristiani, discepoli di Colui che è venuto per servire e non per essere servito, possiamo vivere con “leggerezza” tutto questo. Non la leggerezza della superficialità ma di chi è consapevole che gli è stata usata tanta misericordia, che la “vigna” in cui lavora non gli appartiene.
Benedetto XVI disse il giorno della sua elezione: «Mi consola il fatto che il Signore sa lavorare e agire anche con strumenti insufficienti».