IV Domenica di quaresima *Domenica 15 marzo 2015
Giovanni 3, 14-21
In quel tempo, Gesù disse a Nicodemo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
Ti amo da morire
Sono gli innamorati che si scambiano queste parole, non perché si augurino sacrificio, mortificazione, rinuncia: perché sentono che ogni volta che qualcuno sussurra «ti amo», in fondo gli sta assicurando: «Tu, non morirai mai!» (cfr Gabriel Marcel). Qual è il messaggio di Cristo in croce, se non questo: certezza di immortalità, vittoria dell’amore. «Bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo». Non c’è chiesa in cui non vi sia un crocifisso; non c’è presbiterio liturgicamente corretto in cui non campeggi una croce. Tutto questo per ricordarti, cristiano, che la croce, segno della vittoria immortale dell’amore, deve essere innalzata in te. Non solo penzolare al collo; non “brandita” per marcare un’appartenenza contro chicchessia: deve piuttosto essere stampata nel profondo del tuo essere a suggerirti che amare è sempre dare (la propria) vita. L’amore autentico vivifica: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo» (seconda lettura).
Cosa vedi?
Cosa vedi, cristiano, nel Cristo innalzato sulla croce? La ricchezza del perdono e la catastrofe per il peccato: «Dio ha mandato il Figlio nel mondo... perché il mondo sia salvato per mezzo di lui». Il male non è l’ultima parola, il Padre non si rassegna a vedere andar perduti i suoi figli di adozione perché «siamo opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone» (seconda lettura). Ci sono opere buone preparate per noi non perché siamo marionette di cui Egli tira le fila, cioè predestinati a discapito della nostra libertà. Le opere buone ci sbocciano dalle mani per la stessa ragione per cui la luce sgorga dal sole, la foglia spunta dal ramo, un bel fuoco scalda ecc. Perché il bene è la nostra vera, autentica natura; perché l’amore è compimento di quel che siamo. Nella croce, cristiano, vedi il dono immeritato e inatteso: «Per grazia siete salvati» (seconda lettura). Nella croce, cristiano, c’è una scelta da fare, un giudizio: o con la luce o con le tenebre. I mezzi di comunicazione ci riversano addosso una sequela di brutture terrificanti che davvero spaventano, tanta è la brutalità di cui può essere capace un essere umano. La croce assume senza sconti questa violenza (Gesù è l’innocente che muore atrocemente quasi solo) ma ci assicura che l’abisso del male è vinto dall’amore del Cristo. Le icone bizantine della resurrezione raffigurano Cristo che discende negli inferi, per afferrare saldamente per i polsi l’umanità, simboleggiata da Adamo ed Eva. E quel Cristo “danza” su due pezzi di legno incrociati, la croce, mentre al di sotto si spalanca una vertigine nera spaventosa. L’ultima parola non è il nulla né il male.
Straniero e veleno
«In quei giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio» (prima lettura). La salvezza passa attraverso l’intervento di uno straniero, per sé un nemico e un estraneo, Ciro, che fa quel che nessuno dei credenti aveva potuto fare. Dinamica simile nella prima lettura: i serpenti portano morte nella carovana degli ebrei in marcia verso la terra promessa; e un serpente, non più strisciante al suolo, ma innalzato nel cielo, è la salvezza. Guarire dal proprio male significa lasciare assumere da Dio e da Lui trasfigurare e risignificare quel che è straniero in noi e fuori di noi, quel che è veleno e morte. Il peccato e la ferita sono quindi la porta attraverso cui Dio entra nell’esistenza per farne cosa nuova. Peccato e ferita che, certo, mai e poi mai vanno cercati, ma che di fatto sono il contatto con «la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù».
24 ore per il Signore
«Visto che ci viene così poca gente a confessarsi, potremmo adibire uno dei quattro confessionali (quattro ne abbiamo!) a magazzino provvisorio per cose che servono saltuariamente alla liturgia...». Un prete fa questa osservazione all’insegna della concretezza, un po’ distrattamente. Confessione, sacramento in crisi? L’esperienza pare confermarlo: numeri in calo e non sempre chiara percezione che il sacramento non è uno sfogatoio dei pesi della vita, né una sorta di seduta psicanalitica gratuita. Da parte sua, l’anno scorso il papa, in quanto vescovo di Roma, sollecitò di dedicare un’intera giornata al sacramento della riconciliazione in prossimità della quarta di quaresima, per sottolineare il dono di misericordia che Dio mai si stanca di elargire. Il tema prescelto per quest’anno è proprio la seconda lettura di questa domenica. Come farebbe un vecchio curato di campagna d’altri tempi dico: andiamo a confessarci! Il sacramento della penitenza si inserisce bene fra gli elementi che caratterizzano la quaresima: in quanto sacramento è l’opera di Dio in te, che fa suo e trasfigura ogni impegno di penitenza ravvivando la grazia battesimale. Dal punto di vista educativo è importante la preparazione illuminata dalla parola di Dio (esame di coscienza); e anche il focalizzare come il peccato si è fatto strada attraverso la tentazione.