Una crepa nel muro e le ultime notizie dal Borghetto
Si avvia a conclusione anche l’avventura dei Giornalisti in quarantena e io sono ancora qui, senza rete ma molto fortunato.
Anche nel Borghetto è arrivata la tanto attesa Fase 2, ce ne siamo accorti perché al bar d’angolo son comparse le seggiole di plastica ai lati dell’ingresso e la porta è tornata a spalancarsi dopo settimane.
Non ci si è seduto ancora nessuno, probabilmente incorrerebbe in qualche sanzione celata nelle maglie del penultimo decreto ma tant’è, le seggiole segnalano l’avvio della ripresa e anche della bella stagione.
Noi siamo ancora qui, ormai più per passione che per costrizione. Le giornate hanno guadagnato una routine tutta loro e, finché dura, non abbiamo nulla di cui lamentarci.
Da qualche giorno, iniziando a temere il rientro alla base, ho cercato di recuperare le abitudini dei mesi scorsi, a cominciare dalla sveglia.
Dalle 7 sono passato prima alle 6 e tre quarti, poi alle sei e mezza e infine alle sei meno un quarto.
Mi desto, spengo soddisfatto lo smartphone e, per non svegliare tutto il caseggiato, mi metto a leggere seduto a letto.
Resisto un quarto d’ora e poi mi riaddormento finché non sento profumo di caffé, alle 7. Si dorme meglio quando si è certi d’aver fatto il proprio dovere.
Da alcune mattine, risalendo verso la canonica, mi soffermo a guardare il casamento abbandonato che sovrasta la piazzetta.
Due lunghe crepe, una per lato, iniziano dal tetto e discendono, seguendo la traccia delle canne fumarie fino a lambire il piano terreno.
Faccenda strana, quella che accompagna le crepe: alle volte impiegano anni a spaccare un muro a metà ed altre volte compaiono così, in una notte.
Vai a letto la sera e la parete del salotto è immacolata, integra. Ti svegli la mattina e la mensola ricolma di libri sembra un ponte tibetano sospeso sul crepaccio, con Kipling a puntellare Simenon e Anna Karenina a far da contrappeso all’altro capo.
«Non la casca mica — ha sentenziato il muratore, convenuto anch’egli ad ammirare la lunga crepa — è più facile che caschino queste case nuove qui che quelle vecchie», e con un gesto ha indicato la restante parte del rione, incluso il mio condominio.
Superato il momento degli scongiuri, ho colto il senso filosofico della questione: ci sono muri e muri, crepe e crepe.
Negli stabili moderni, tutti cemento, ferro e cartongesso, la crepa è una bega fra i materiali: uno tira, l’altro non cede e alla fine qualcosa si strappa.
Scaramucce infantili, sciocchezze indegne persino d’esser considerate dalle schiere di architetti, ingegneri e fini urbanisti che ragionano un tanto al metro cubo.
Nelle case vecchie, invece, la crepa è una storia a sè e deriva da un patto antico stretto fra il nonno del nonno muratore e le pietre di cui son composti i muri.
«Tu mi hai preso al mio torrente — disse il sasso antico al nonno del nonno — e io mi farò sgrezzare a martellate e annegare nella malta. Starò qui, fermo immobile per cent’anni, ad andar d’accordo con le assi scricchiolanti e gli intonaci screpolati a condizione che tu abbia cura di me, imbianchi le pareti e abiti le mie stanze».
Cent’anni meno un giorno dopo, le pietre si riuniscono in concistoro e fanno un bilancio della loro esistenza: c’è chi manifesta l’invadenza delle travi tarlate infilate nel muro, a qualcuna prudono gli intonaci e ad un paio non va più a genio il pavimento della cucina.
Tutte insieme, però, lamentano come il patto antico non sia più stato onorato: le malte si sgretolano, dal tetto e dai solai filtrano la neve e la pioggia e la grande casa è stata abbandonata a sè stessa.
Le pietre si sono così sindacalizzate e, per far sentire la loro voce, hanno escogitato una protesta tutta loro. Così è nata la prima crepa e poi, visto che gli era venuta bene, anche la seconda.
Guardo questa vecchia casa con il cartello vendonsi inchiodato ai balconi e ci vedo un po’ di me stesso.
Le speranze e le grandi promesse, i patti ricolmi di buoni propositi — farò, andrò, vedrò… — e la routine di tutti i giorni, l’inerzia di accontentarsi che le cose si reggano l’una con l’altra, in attesa che qualcosa cambi da sé.
Poi è arrivata la quarantena, la sveglia ha iniziato a suonare due ore più tardi e dalla finestra non ho più visto più i garage dei vicini ma i paeselli abbracciati alla montagna.
Cambia la prospettiva, muta il contesto ed ecco che si apre una crepa tutta mia, capace di segnare un prima e un dopo.
Sono stato fortunato: per la generazione dei nonni, il prima e il dopo conviveva con la guerra mentre io avrò una strana primavera in montagna, segno concreto che non si stava meglio quando si stava peggio.
Siamo stati fortunati a poter sfruttare queste settimane per far mente locale, raccontare storie e guardar fuori dalla finestra. Qualche giorno fa, nel cercare di spiegare ai miei genitori il senso di gratitudine che mi pervade quando ripercorro mentalmente le ultime settimane, ho tirato in mezzo la Provvidenza.
C’è qualcosa di provvidenziale nel bene che ci è stato riservato, nella possibilità di fare le esperienze che ho fatto. C’è lo zampino della Provvidenza nelle oltre sessanta funzioni liturgiche a cui ho assistito in vari modi da quando tutto è cominciato e c’è anche qualcosa di provvidenziale nell’aver preso un po’ la mano a fare il pane e a seguire le ricette dell’amico fornaio.
Forse ha ragione il muratore, non sarà una crepa a far crollare la vecchia casa. Ciò che è sicuro, però, è che dalla mia oggi filtra il sole.