Voto alle donne: settant'anni dopo c'è da riscoprire la voglia di partecipazione
Tra il 10 marzo e il 7 aprile di settant'anni fa, le donne italiane erano ammesse per la prima volta al voto. La partecipazione, vissuta come un dovere più che un diritto, fu al di sopra delle aspettative e l'impegno comune del fronte femminile in Parlamento, oltre il partitismo, aiutò le altre donne e il Paese intero. Una trasversalità per il bene comune che oggi manca.
Soddisfazione misurata e senso di responsabilità. Furono questi i sentimenti, 70 anni fa, espressi dalle donne italiane in occasione del diritto al voto. Non vi fu infatti la percezione di una grande conquista, ma la convinzione che tale diritto, esercitato per la prima volta tra il 10 marzo e il 7 aprile 1946 per le elezioni amministrative, non fosse altro che un risarcimento morale, un indennizzo per le grandi sofferenze e l’impegno in prima persona nella lotta durante la Resistenza.
È Maria Federici, leader cattolica e presidente del Centro italiano femminile (Cif) dal 1944, a ricordare come moltissime donne avessero partecipato alla lotta per la Liberazione dal nazifascismo pagando a caro prezzo un alto contributo di vite umane e di rischi nella clandestinità, in nome dei valori civili della libertà personale e sociale e della ricostruzione dell’Italia repubblicana.
Dalle ceneri e dall’orrore della guerra appena conclusa, la conquista del voto venne percepita più come un dovere che come un diritto. Si trattava di partecipare attivamente alla ripresa economica e sociale del tessuto della società civile italiana, dilacerato e ferito, ma pronto con le armi ideali del sacrificio e della responsabilità ad essere ricucito anche con l’apporto delle donne, che rappresentavano allora il 52% dell’elettorato.
De Gasperi e Togliatti, che insieme avevano firmato il 31 gennaio 1945 il decreto che sanciva il voto femminile, erano entrambi preoccupati per il prevedibile astensionismo. Le donne invece, anche le molte analfabete pur distanti dalla nuova sensibilità sociale, andarono in massa a votare. Si parla dell’89% delle aventi diritto, dando un’indicazione precisa alle nuove classi dirigenti.
E se all’assemblea costituente su 556 membri vennero elette solo 21 donne (9 democristiane, 9 comuniste, 2 socialiste, 1 dell’ “uomo qualunque”), la loro voce minoritaria divenne forte e chiara a favore di battaglie costruttive non solo per le donne ma per il bene del Paese.
Un elemento significativo va al riguardo notato: in quegli anni i due più importanti schieramenti femminili, l’Udi (Unione donne italiane) comunista e il Cif democristiano svilupparono una sinergia operativa oltre le appartenenze partitiche, convinte che ci fosse molto da fare e solo con una strategia condivisa sarebbe stato possibile ottenere buoni risultati.
Sono almeno tre le lezioni per l’oggi
La prima è legata alla grande partecipazione contro la tentazione dell’astensionismo, vera malattia sociale che va neutralizzata dai rischi del disimpegno e della rassegnazione.
La seconda è connessa all’attuale grettezza ideologica dei partiti che non favoriscono in pieno le possibili alleanze trasversali tra le donne. In questo modo non è possibile per le parlamentari coagularsi a formare un’incisiva massa critica contro le piaghe sociali di oggi: dal femminicidio all’utero in affitto.
Perché, ed è il terzo e ultimo punto, molto si è fatto, ma non tutto. Ancora c’è parecchia strada da percorrere: forse siamo in una nuova stagione di Resistenza.
Se saremo tutte unite, al di là delle rispettive appartenenze, potremo diventare ancora di più parte attiva per un risveglio morale e critico delle coscienze.