Terzo settore, fatta la legge ora va ritrovata un'anima profetica
Per il terzo settore, è un passaggio storico. Finalmente l’Italia si è dotata di una legge che non solo ne regolamenta la vita, ma fa molto di più: individua, definisce, dà piena cittadinanza nel sistema dell’economia nazionale a un comparto nato e cresciuto negli anni in maniera tumultuosa ma privo di una precisa identità, col rischio che nel calderone finisse di tutto, improvvisatori e truffatori compresi. Cosa attendersi da questa legge a lungo attesa e molto dibattuta?
Senza addentrarci nei tecnicismi, un paio di riflessioni generali possono comunque essere avanzate, guardando al panorama che il testo si prefigge di normare, ai dati che le periodiche indagini ci consegnano e – purtroppo – alle distorsioni scoperchiate da più d’una inchiesta giudiziaria.
Partiamo dalla definizione che la legge dà del terzo settore, inteso come «il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che promuovono e realizzano attività di interesse generale».
Dire “senza scopo di lucro” non significa restringere il campo al solo volontariato, ma individua un modo di fare impresa (sociale) che negli obiettivi e nello stile vuole contribuire a un interesse superiore, “generale”, rispetto a quello pur lecito degli azionisti. Detto con un bello slogan di qualche anno fa di Banca Etica, “L’interesse più alto è quello di tutti”. È questa, credo, la prima questione su cui soffermarsi.
Anche al netto delle ruberie scoperchiate dalle inchieste di Mafia capitale, il terzo settore è chiamato a un atto di coraggio, per fare pulizia al suo interno di situazioni equivoche, presenze scomode, collusioni inaccettabili, zone d’ombra che fin qui sono state consentite da una legislazione confusa.
Una cooperativa, un’associazione, un circolo culturale devono essere strumenti di promozione umana, di crescita sociale, di esercizio democratico e di valorizzazione della persona. Non, come oggi troppe volte capita, una comoda scorciatoia per non pagare le tasse o per vincere appalti pagando i lavoratori meno dei concorrenti.
In questo esercizio di scrematura le leggi aiutano, anzi spesso ne sono l’indispensabile punto di partenza. Ma quel che più conta è la volontà di un settore di fare pulizia al proprio interno. Questo anno di lavoro sui decreti delegati che ci è di fronte va vissuto in un costante, profondo dialogo tra il governo e tutti i soggetti coinvolti: per valorizzare il tanto buono che c’è, e creare le condizioni per accompagnare alla porta gli ospiti indesiderati.
La seconda riflessione attiene al ruolo e alla fisionomia odierna del volontariato, che nel corso della discussione della legge ha più volte sottolineato il rischio che il testo fosse più attento alla dimensione imprenditoriale del terzo settore che non a quella della gratuità.
Se è vero che il volontariato continua a rappresentare un fiore all’occhiello del nostro paese, sarebbe sbagliato nascondersi problemi e fragilità che vanno emergendo.
L’ultimo rapporto elaborato dal Coordinamento nazionale dei centri di servizio per il volontariato stima che le associazioni siano oggi 44 mila e 1 milione e 700 mila gli italiani coinvolti nelle loro attività. L’età media però è alta, 48,1 anni, e il coinvolgimento dei giovani difficile. Da sette anni a questa parte cala costantemente il numero di nuove associazioni. La metà ha meno di 16 volontari, un numero decisamente troppo esiguo. I volontari sono soprattutto donne, ma due terzi dei dirigenti sono uomini... e solo 4 associazioni su 100 hanno un presidente con meno di 35 anni, mentre la media è di 58. Sono solo alcuni aspetti, elencati alla rinfusa, che però dovrebbero suonare come un campanello d’allarme.
Così frammentato, con dirigenti dai capelli già bianchi e sempre più in difficoltà nel coinvolgere in maniera strutturale le nuove generazioni, il volontariato ha di fronte a sé un grande rischio: quello di ridursi a “ruota di scorta” di politiche sociali sempre più in affanno, perdendo il suo più autentico, e significativo, carisma.
Detto in altre parole, di perdere la sua capacità autenticamente “politica”, di non avere più voce, e di limitarsi al “fare”. Impegno nobile, ma insufficiente. Lo ricordava da queste pagine, lo scorso marzo, il neo presidente del Csv Emanuele Alecci per delineare il profilo di Luciano Tavazza, il fondatore del Movi, l’uomo che in Italia ha teorizzato l’assunzione della dimensione politica del volontariato.
«Dedicare a lui la scuola di volontariato e del legame sociale – scriveva Alecci – è un modo per indicare con rigore la strada da intraprendere: quella di impegnarsi per formare volontari e cittadini come protagonisti attivi nel promuovere comunità includenti e in grado di generare nuovi legami sociali». Questa è la sfida più importante che sta di fronte oggi al volontariato, prima o perlomeno a fianco delle mille iniziative solidali che costellano i nostri calendari.
Un volontariato che sia stimolo e anima critica, è anche la migliore garanzia per l’intero terzo settore.
Che oltre a una nuova legge, ha bisogno oggi di trovare un nuovo slancio per essere davvero presenza profetica, voce di libertà e gratuità nel contesto individualista, concorrenziale, teso al profitto che domina oggi la cultura occidentale. E che la sta portando a un triste crepuscolo.