Padrini conviventi? Serve un po' di chiarezza
Ho letto con piacere la lettera sul ruolo dei padrini e delle madrine sulla Difesa del 5 marzo e anche la risposta di don Giorgio Bezze. Mi trovo in completa sintonia con entrambi e mi è venuto spontaneo scrivere queste righe di testimonianza personale, ma che racchiudono in sé anche alcune fatiche.
Quando i genitori suonano in canonica per “chiedere il battesimo” è sempre una gioia perché diventa anche l’occasione per ascoltarli mentre raccontano le novità, le fatiche, i timori, le speranze che la nascita di una nuova creatura porta sempre con sé. Poi si passa alle cose pratiche... per prima cosa la data del battesimo e fin qui tutto va bene, anche se quasi sempre mi trovo davanti a genitori che non hanno una vita di fede... E dopo esserci scambiati poche battute so già che, come non li ho visti mai a messa (o ad altri momenti comunitari), non li vedrò comunque neanche dopo il battesimo.
Quando poi si arriva alla questione “santolo” e ai relativi requisiti: apriti cielo! Quasi sempre i genitori hanno già deciso chi dovrà assumere tale incarico e la maggior parte delle volte si tratta di persone conviventi. Allora con calma e carità comincio a spiegar loro il senso e il ruolo del padrino: esso rappresenta la chiesa, è di aiuto nel cammino di fede del ragazzo e dei genitori, ecc. Spiego pure che attualmente la chiesa cattolica richiede dei requisiti ben precisi per ricoprire tale incarico e quando si dice che il padrino deve «condurre una vita conforme alla fede e all’incarico che assume» (citato dall’art. 874 del Codice di diritto canonico) i vescovi italiani, ancora dal lontano 26 aprile 1979, hanno spiegato che sono esclusi da tale compito – per esempio – coloro che sono in situazioni matrimoniali “irregolari” (conviventi, sposati solo civilmente, divorziati-risposati).
Subito cominciano le prime obiezioni, quella tradizionale è: «Beh! C’è gente che convive o che è risposata che si comporta in maniera migliore rispetto a chi è sposato o va a messa». Prendo un bel respiro (divenuto ormai tradizionale pure questo) e spiego che questa scelta da parte della chiesa non è un giudizio contro qualcuno, ma solo la richiesta di precisi requisiti.
Seconda tradizionale obiezione: «Ma papa Francesco ha detto di aprire le porte ai conviventi». Qui apro una parentesi. Onestamente non posso nascondere che certe volte ascoltando papa Francesco mi vien da pensare che prima di dire certe cose dovrebbe ricordarsi che siamo poi noi parroci a trovarci “sul campo di battaglia”. Chiusa parentesi.
Spiego loro che è vero che il papa ogni giorno esprime molte sue opinioni personali, ma a ora non ha cambiato la dottrina della chiesa riguardo la figura dei padrini. Alla fine cosa accade? Alcune coppie si rassegnano, altre barano, altre (fortunatamente la maggior parte) capiscono, altre ancora, ahimè, vanno in un’altra parrocchia (un po’ come quando giri vari supermercati e alla fine trovi l’offerta migliore). Purtroppo la parrocchia è considerata da molti fedeli una entità giuridico-istituzionale chiamata esclusivamente a offrire servizi religiosi. È sempre stata mia cura accogliere la domanda del sacramento accostandomi con delicatezza e rispetto a queste situazioni, cercando anche un linguaggio che i genitori possano capire.
Dall’altra parte però, almeno in alcuni casi, trovo persone che vogliono imporre le loro idee portando motivazioni del tipo: «per me è così», «secondo me deve essere fatto così», «io sono di questa idea e lei deve rispettarla», «non può dirmelo ora, non sapevamo nulla». Sembra che diventino ferventi credenti solo per il tempo del battesimo e l’ateo o colui che non sa cosa bisogna fare sia il sottoscritto. Non posso poi nascondere il disagio quando mi viene detto che ci sono alcuni confratelli che non ritengono necessario rispettare tali condizioni e che battezzano senza problemi indipendentemente dalla situazione in cui vive il padrino e/o la madrina. Questo genera una grande confusione tra i fedeli, spingendoli a dividere i preti in due categorie: quelli buoni (che fanno quello che vogliono loro, perché alla fine “va bene tutto”) e quelli cattivi (che rispettano tali indicazioni).
Circa otto anni fa ho promesso obbedienza alla chiesa il giorno della mia ordinazione e in coscienza non mi sento di “chiudere un occhio”. Vero è che ognuno di noi, alla fine, è chiamato a rispondere alla sua coscienza e al vescovo. «Cristiani non si nasce, si diventa» ha scritto Tertulliano. È un’affermazione particolarmente attuale, perché oggi siamo in mezzo a pervasivi processi di scristianizzazione, che generano indifferenza e agnosticismo.
I consueti percorsi di trasmissione della fede risultano in non pochi casi impraticabili. Non si può più dare per scontato che si sappia chi è Gesù Cristo, che si conosca il vangelo, che si abbia una qualche esperienza di chiesa. Vale per fanciulli, ragazzi, giovani e adulti. C’è bisogno di un rinnovato primo annuncio della fede. «È compito della chiesa in quanto tale, e ricade su ogni cristiano, discepolo e quindi testimone di Cristo; tocca in modo particolare le parrocchie» (dalla nota pastorale Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia). Ecco che assieme al consiglio pastorale stiamo lavorando per creare cammini adeguati a rispondere a questi bisogni e aiutare i genitori, ma sarei contento se anche nella nostra diocesi ci fosse una linea comune tra presbiteri e comunità cristiane.
don Federico Zago, parroco moderatore Up di Gallio