La dignità degli ultimi merita parole chiare
C'è una antica pulsione che periodicamente fa capolino – da una parte e dall’altra, va ricordato – quando la chiesa si permette di esprimere una parola chiara in merito ai temi del dibattito sociale e politico. Così è stato anche in questi giorni riguardo al tema dello ius soli.
Ma immaginare che le buone leggi si scrivano mettendo il silenziatore alla società civile (chiesa compresa), non ci pare segno di saggezza.
Era da tempo che non si registravano nel dibattito politico italiano toni così sguaiati nei confronti della chiesa come quelli che abbiamo ascoltato nel corso della discussione sul cosiddetto ius soli, ovvero sulla concessione della cittadinanza ai minori stranieri nati in Italia.
Vale allora la pena soffermarsi su questa antica pulsione che periodicamente fa capolino – da una parte e dall’altra, va ricordato – quando la chiesa si permette di esprimere una parola chiara in merito ai temi del dibattito sociale e politico.
Quale che sia il tema, l’assunto è sempre lo stesso e cambiano al più le sfumature: il Vaticano non deve impicciarsi; i preti facciano i preti; il parlamento è sovrano.
Alla ripetizione compulsiva e ai toni bellicosi è difficile rispondere con la pacatezza dei ragionamenti. Ma noi ci tentiamo lo stesso, almeno per ribadire un punto fondamentale.
Il fatto è che, volenti o nolenti, il cattolicesimo è parte sostanziale della storia, della cultura, dell’identità del nostro paese. E quando i vescovi parlano, non lo fanno perché imbeccati da una “potenza” straniera (il Vaticano) ma perché danno voce a un sostrato di esperienze, analisi, riflessioni che sono frutto del secolare impegno dei cattolici nella società: come credenti, e come cittadini di questo stato.
Poi, come è chiaro, ad ognuno il suo.
Ma pensare che una politica pronta ad ascoltare associazioni, gruppi d’opinione, vere e proprie lobby per qualsiasi provvedimento, si senta minacciata nella sua libertà dal pensiero dei vescovi è quantomeno indice di una scarsa fiducia in se stessa.
Questa volta è giunto anche un cortese suggerimento.
«La Cei – ha spiegato Roberto Calderoli – pensi agli italiani senza lavoro, casa e pensione dignitosa».
Forse all’estensore del celebre porcellum sono sfuggiti in questi anni i numeri di un’azione caritativa che più la crisi avanza e più si fa imponente. Ma i numeri, sia chiaro, non dicono tutto.
Sono il senso e lo stile che a quei numeri danno valore. Il senso: la carità dà concretezza alla nostra fede, ne è un metro esigente e veritiero. Lo stile: la carità non si limita a rispondere al bisogno immediato, ma guarda alla persona e alla sua dignità.
Quegli italiani senza lavoro, casa e pensione, per noi non sono uno slogan elettorale ma persone che guardiamo quotidianamente negli occhi e nel cuore. Persone che non chiedono solo di aiutarli nell’emergenza del momento, ma di essere accompagnate a riprendere in mano la propria vita.
E non vi è contrapposizione tra i loro diritti e quelli di un bambino nato in Italia a sentirsi uguale ai suoi compagni di scuola, così come non vi è contrapposizione col diritto di chi fugge da guerra e povertà a ricevere asilo.
Come ricorda il vicario episcopale don Marco Cagol, «la carità non si ferma a distribuire un pasto caldo. Il suo obiettivo deve essere quello di stimolare le istituzioni perché aggrediscano le cause della povertà, perché questo impegno sia vissuto come una responsabilità comune».
Questa, volenti o nolenti, si chiama “politica”.
Certo, la sua traduzione pratica – in leggi, decreti, stanziamenti – è prerogativa del parlamento e dei partiti.
Ma immaginare che le buone leggi si scrivano mettendo il silenziatore alla società civile (chiesa compresa), non ci pare segno di saggezza.