Unioni civili sì. Cittadinanza no. C'è diritto e diritto...
Un anno fa, il 13 ottobre del 2015, la Camera dava il via libera al ddl di riforma della legge sulla cittadinanza. Dopo 23 anni, dunque, l’Italia sembrava pronta a cambiare le regole sulle modalità con cui si diventa cittadini nel paese. Una riforma attesa, soprattutto dai figli degli immigrati, che secondo la legge 91 del 1992, devono attendere fino al diciottesimo anno di età per poter chiedere la cittadinanza, anche se sono nati in Italia, anche se hanno frequentato le nostre scuole e qui sono cresciuti.
Secondo le stime si tratta ormai di oltre un milione di ragazzi, cittadini di fatto, ma non per la legge.
«Appena il Parlamento avrà finito con la legge elettorale e la riforma istituzionale, per me si apre la stagione dei diritti».
Parola di Matteo Renzi, nel salotto televisivo di Che tempo che fa, datate 28 settembre 2014. Tanto per essere più chiaro, il premier indicò anche a quali provvedimenti stava pensando: la “civil partnership” e la legge sullo ius soli. Traduciamo anglicismi e latinismi: le unioni civili per le coppie omosessuali e la cittadinanza per i bambini stranieri nati in Italia.
Sono passati due anni, e sappiamo com'è andata.
La legge elettorale è stata approvata, ma già lo stesso Renzi si dice disponibile a riscriverla. La riforma istituzionale è legge e attende il 4 dicembre di sottoporsi al voto referendario degli italiani.
Le unioni civili, dopo una battaglia senza esclusione di colpi in parlamento e fuori, sono legge dallo scorso 5 luglio. Che si tratti di un “diritto” rimane discutibile, che fossero una priorità sembrerebbero smentirlo i numeri: secondo le verifiche effettuate dal Sole 24 ore – dunque tutt'altro che un retrivo “giornaletto” cattolico come il nostro... – al 26 settembre erano 100 le unioni registrate e 463 quelle in attesa. Tutto qui, nonostante la grancassa che ha accompagnato il “fondamentale” traguardo raggiunto sulla strada della civiltà.
E lo ius soli? E il riconoscimento di quel milione e più di ragazzi che sono nati qui, cresciuti qui, ma che la legge non considera cittadini? Ecco, per loro la “stagione dei diritti” si è fermata a metà. Più esattamente, si è interrotta il 13 ottobre del 2015, quando la Camera approvò la riforma della legge sulla cittadinanza. Poi il disegno di legge è arrivato al Senato, e da allora della riforma si è persa ogni tangibile traccia.
Ad “aprire il fuoco di sbarramento” è stata la Lega Nord, che ha sommerso il testo con una pioggia di oltre settemila emendamenti, trasformandolo in campo di battaglia grazie anche al clima di diffidenza che si respira da quando abbiamo scoperto che gli attentati dell'Isis sono compiuti da ragazzi nati e cresciuti in Europa.
Ma il governo ha già fatto fronte in altri casi con efficacia e rapidità agli emendamenti-fotocopia sfornati dall'ex ministro Calderoli con l'ausilio di un computer. C'è il “canguro” che consente di bocciarli in blocco, ci hanno spiegato che esiste perfino il “supercanguro”. E poi c'è sempre il voto di fiducia, quello di cui ogni governo – Renzi compreso – ha usato e abusato quando le leggi gli stavano particolarmente a cuore.
Invece, in questo caso, sugli emendamenti della Lega non è pervenuto nemmeno il parere di ammissibilità della presidente della commissione Affari costituzionali, la democratica Anna Finocchiaro. E la sensazione è che la maggioranza non abbia alcuna voglia di accelerare. Ci sono state le elezioni amministrative, ora c'è il referendum alle porte, c'è una manovra delicata da contrattare con l'Europa... insomma, vale proprio la pena impelagarsi anche in questa faccenda?
A noi – e con noi agli oltre duecentomila italiani che firmarono la proposta di legge popolare avanzata dalle realtà (Arci, Caritas, Centro Astalli, Cnca) del comitato L'Italia sono anch'io – pareva proprio che ne valesse la pena, e per tanti motivi.
Perché un milione di ragazzi che al compimento dei diciott'anni scoprono di non essere italiani, ma di dover richiedere la cittadinanza con una procedura complicata e non esente da problemi, sono uno spreco di risorse che non possiamo permetterci; perché senza riconoscere diritti è difficile poi esigere doveri; perché è l'integrazione, non l'esclusione, la migliore arma che abbiamo contro ogni tentazione fondamentalista.
Le ragioni sono tante, così come tanti sono i risvolti da tenere in considerazione.
La prima, e più importante, è però che quella carta d'identità che noi spesso dimentichiamo a casa ha – prima ancora di tutto il resto – un valore simbolico profondo. Se passa una grande differenza tra l'averla e il non averla, è perché lì è scritto il nostro “chi siamo”, la nostra identità sociale e civile. E lì risiede anche il nostro diritto a votare, studiare, curarci, fare sport, viaggiare, sposarci, lavorare come qualsiasi altro cittadino.
Senza scomodare gli antichi e quel civis romanus sum che valeva in mezzo mondo come forma di tutela assoluta, solo chi lo sperimenta in prima persona può testimoniare quale peso comporti, concretamente e psicologicamente, il “non essere di nessuno”. Anzi, l'essere e il sentirsi “cittadini illegittimi”, quasi fantasmi come quelli che il 13 ottobre, in diverse piazze d'Italia, si sono materializzati in tanti flash mob.
Eppure, la politica è ferma da un anno. Il “supercanguro” e la fiducia nessuno nemmeno li minaccia, di “stagione dei diritti” nessuno parla più. Tanto, potranno sempre dire, le unioni civili le abbiamo fatte. Mica roba da poco.