Lele Ramin, martire per la fede
Sabato 25 marzo, nella parrocchia di San Giuseppe si chiude la rogatoria diocesana, parte del processo di beatificazione del comboniano padovano, che si è aperto in Brasile nell’aprile scorso. Il postulatore, padre Baritussio: «È stato un vero martire». Quindi la causa passerà alla Santa Sede e a papa Francesco.
«Caro fratello, se la mia vita ti appartiene, anche la mia morte ti apparterrà».
Questa manciata di parole sono bastate a Ezechiele Ramin per fare di una semplice predica una profezia, poche settimane prima di essere assassinato il 24 luglio 1985 al confine tra Mato Grosso e Rondonia, nel Brasile profondo. Da 32 anni la sua morte si è tramutata in una luminosa testimonianza di vita e ora – come spiega padre Arnaldo Baritussio, postulatore della sua causa di beatificazione – «abbiamo sufficienti elementi per sostenere che “Lele” è un martire cristiano».
È questo il significato dell’appuntamento di sabato 25 marzo alle 16 a San Giuseppe, la parrocchia padovana in cui Ezechiele Ramin è cresciuto e ha maturato la sua vocazione.
Si chiude così la rogatoria diocesana per la beatificazione del giovane comboniano. I 33 testimoni ascoltati a Padova, si sommano agli oltre 70 sentiti in Brasile a partire dall’aprile 2016. Un anno in cui la vita di padre Ramin è stata ripercorsa palmo a palmo, anche attraverso le lettere e gli scritti. Tutto materiale che compone il corpus della causa promossa dalla diocesi brasiliana di Ji-Parana, dove padre Ramin ha vissuto gli ultimi mesi di vita trovando la morte.
Alla presenza del vescovo Claudio Cipolla, del tribunale ecclesiastico che ha condotto la rogatoria coordinato mons. Pietro Brazzale, dopo gli interventi del parroco di San Giuseppe don Enrico Luigi Piccolo, del direttore del centro missionario don Gaetano Borgo e del provinciale dei comboniani padre Giovanni Munari, lo stesso padre Baritussio verrà nominato “portatore” degli atti processuali presso la Congregazione per le cause dei santi a Roma. Da quel momento, la beatificazione di “Lele” Ramin sarà nelle mani della Santa Sede e di papa Francesco.
Quando cade, crivellato da 72 colpi d’arma da fuoco all’uscita della fazenda Catuva, Ramin è in Brasile da appena 13 mesi. Aveva ben chiara l’idea che «la fede deve camminare assieme alla vita». Aveva deciso fermamente che il suo lavoro a Cacoal, nella diocesi di Ji-Parana dov’era stato destinato, era «l’annuncio e la denuncia». Non poteva essere altrimenti, «considerando la situazione del popolo».
Un popolo composto dagli indios che si vedevano invadere le terre e abbattere ampie porzioni di foresta da quei coloni arrivati in massa in Rondonia tra gli anni Settanta e Ottanta, spinti da un governo che prometteva loro l’“Eldorado”: terra per tutti. Famiglie intere abbandonarono le città della costa, ma – come testimonia Jose Agostino Baldo, che tentò di impedire a padre Ramin di recarsi alla fazenda Catuva in quel maledetto 24 luglio – arrivate lì trovarono una situazione ben diversa: niente terra, malaria diffusa, violenza ovunque. La vita non valeva nulla. Spadroneggiavano i latifondisti che occupavano i terreni su cui i contadini, rimasti senza terra, si spaccavano la schiena. E gli jagunços, uomini armati al soldo dei fazenderos, uccidevano senza scrupoli.
Di fronte a tutto ciò, a Ezechiele Ramin, che aveva coordinato Mani Tese a Padova, sostenuto i terremotati dell’Irpinia e gli indios nel Sud Dakota e visitato i Sioux, non poteva tacere.
«Ezechiele in Brasile si è inserito perfettamente in una chiesa che aveva scelto di stare accanto ai poveri e agli ultimi – spiega padre Baritussio – Le innumerevoli prese di posizione dell’episcopato latinoamericano (Medellin 1968, Puebla 1979 e poi Santo Domingo 1992 e Aparecida 2007) hanno trovato in Ramin un esempio plastico di una fede capace di rischiare ed esporsi. D’altra parte, quando in un’omelia Ezechiele citò pubblicamente i latifondisti e i loro misfatti, il vescovo di allora, mons. Antonio Possamai, lo sostenne senza esitare».
Che la situazione fosse particolarmente pericolosa, specie a Catuva, era risaputo.
E a Ezechiele non erano certo mancate le minacce di morte. Ma aveva promesso alle mogli dei “senza-terra” che sarebbe intervenuto per placare le proteste dei contadini e salvare così le loro vite minacciate. Gli jagunços gli permisero di entrare nella fazenda. Ezechiele parlò da leader naturale, calmò gli animi. L’agguato avvenne all’uscita dal latifondo.
«Se padre Ramin non fosse stato lì, la chiesa sarebbe stata assente in un frangente così delicato per la vita di quella gente – continua il postulatore – Come Gesù padre “Lele” ha unito la sua vita alla sua opera, ha predicato un Regno di Dio “concreto”, in cui anche, gli ultimi, contadini e indios avessero il loro posto. Per questo la sua figura non può essere derubricata a ingenuo e disobbediente agitatore di popolo».
«Padre Ezechiele è stato un uomo di coraggio. La sua è stata la logica del seme: dal suo sacrificio sono nati innumerevoli progetti e comunità – riflette padre Davide De Guidi, comboniano a Padova – È un esempio vivo e autentico per i giovani. Il suo messaggio è chiaro: la missione è un dono di Dio, ma significa immergersi con tutta la vita nella vita dei popoli che ci sono affidati. E questo può significare la morte».
Per mons. Pietro Brazzale, la vicenda di padre Ramin «si inserisce nel solco dei molti sacerdoti padovani di cui sono in corso o si potrebbero aprire cause di beatificazione: penso a Lucio Ferrazzi, Bernardo Longo, padre Giovanni Didonè di Cittadella, ma anche Ruggero Ruvoletto. Padovani dalla grande fede, esempi fulgidi in questi tempi non certo facili per il clero della nostra diocesi».