Il primo anno in Africa del vescovo Antonio: «Davvero il vangelo trasforma la vita»
In dialogo con il vescovo Antonio alla vigilia della sua nuova partenza per l’Etiopia, dove dallo scorso settembre vive come semplice missionario a servizio delle piccole comunità di cattolici. Tra lunghi viaggi in jeep, lezioni di inglese, catechismo, nuovi progetti da avviare coniugando evangelizzazione e servizio alla persona, come da sempre è nella tradizione missionaria.
L'intervista del direttore Guglielmo Frezza, ora disponibile per tutti i lettori del nostro sito internet.
Annunciare il vangelo nelle periferie. Anzi, alla periferia della periferia.
Se l’Africa, nonostante le sue potenzialità, è il grande continente dimenticato del mondo, la prefettura apostolica di Robe è un avamposto collocato lì dove la povertà è così grande e le distanze così smisurate che anche la capitale dell’Etiopia è poco più di un lontano riferimento. Nei suoi centomila chilometri quadrati di superficie, a 400 chilometri da Addis Abeba, vivono un migliaio di cattolici.
E qui, in questa regione di primissima evangelizzazione, il vescovo Antonio ha deciso di vivere la sua seconda stagione africana, da semplice missionario, dopo gli anni trascorsi come nunzio apostolico in Costa d’Avorio e dopo i 25 anni vissuti alla guida della diocesi di Padova.
In queste settimane è in Italia, ospite di villa Immacolata a Torreglia. Ripartirà l’11 settembre per l’Etiopia.
Intanto, domenica 4 era a Roma per rappresentare la prefettura apostolica alla canonizzazione di Madre Teresa di Calcutta, che della piccola comunità di Robe è la patrona. Le sue suore missionarie della carità sono presenti a Goba, cittadina a una decina di chilometri da Robe, dove gestiscono una grande opera caritativa in cui trovano accoglienza tantissimi malati, anche mentali, e disabili.
Assieme a loro, la cura pastorale delle quattro parrocchie e delle altre piccole stazioni missionarie è affidata a un pugno di sacerdoti, religiosi e religiose, a cui si affianca un piccolo ma crescente numero di catechisti.
C’è il prefetto padre Angelo Antolini, cappuccino; c’è padre Bernardo, che trascorre metà della settimana a Robe e metà nella capitale, oltre a lunghi periodi in Italia per tessere quella rete di rapporti da cui arrivano aiuti e sostegno alla prefettura; ci sono un sacerdote fidei donum della diocesi di Anagni, un fratello cappuccino etiope e dallo scorso novembre due religiosi Lazzaristi, anch’essi etiopi. A Kofale, dove il vescovo Antonio risiede, è poi presente una piccola comunità di religiose Francescane missionarie di Cristo, che al momento conta su due sole suore.
Se le forze si contano sulle dita di due mani, gli impegni non sono mai finiti.
E così i progetti, in questo embrione di chiesa chiamata a illuminare un territorio sconfinato, composto da venti distretti delle regioni dell’Oromia e della Regione dei Somali, a cavallo tra Etiopia centro-meridionale e sud-orientale, con una popolazione di oltre 3 milioni e 300 mila persone per la gran parte di religione islamica.
È un lavoro pastorale scandito da quella triade di attenzioni che ha sempre contraddistingue la missione – vangelo, cura dei malati, educazione – e che converge in un’unica direzione: l’amore alla persona, alla sua dignità, alla sua originale e inimitabile bellezza.
Le strade per giungere alla meta possono essere le più diverse, a volte le più impensate. Come quella che passa per venti pecore...
«Volevamo avviare un progetto di microcredito, ma non potevamo certo farlo secondo i nostri criteri occidentali. Le nostre comunità sono poverissime, specialmente le donne che per qualche motivo vivono sole. Ricordo quando sono andato a battezzare una donna rimasta vedova molto giovane con 5 bambini. Sono entrato nella sua capanna e all’interno non c’era nulla... solo quattro strasse come diremmo noi. Ecco che abbiamo pensato a una scelta semplice e concreta, molto positiva. Una pecora è facile da mantenere: l’erba per fortuna non manca, se fa freddo se la portano in capanna e si scaldano, dà latte. Ma a ciascuna di queste donne abbiamo chiesto un impegno: se entro un anno nasce un agnellino, ci deve essere portato perché noi lo si possa dare a un’altra famiglia. Nessuno nella loro vita le aveva mai aiutate. E questa è la cosa importante, anche più della pecora: acquisire fiducia, sentirsi riconosciute e valorizzate».
«Quando dopo il battesimo abbiamo ascoltato le loro risonanze ci hanno detto di sentirsi rinate... il vangelo, quella Parola che è fraternità e condivisione, trasforma dentro. Cambia la vita delle persone e per questa via può cambiare la società, perché parti da una pecora, e cominci un cammino di sviluppo che vogliamo sia il più possibile lontano da egoismo, orgoglio, ingiustizie, che si alimenti di condivisione e cooperazione per non ricadere nei guai che sperimentiamo qui in Occidente».
Accanto al microcredito, quali progetti state portando avanti a sostegno della popolazione locale?
«Forse il più ambizioso è la costruzione di un ospedale a Robe, finanziato grazie ai fondi dell’8 per mille della Cei. Ormai siamo in fase avanzata e vorremmo che fosse specializzato nella cura delle malattie psichiche, ambito totalmente scoperto nella nostra zona.
E poi non dimentichiamoci dell’educazione delle nuove generazioni: si è avviata una scuola a Dinsho, cittadina dove praticamente non ci sono cristiani; a Kofale la scuola va fino all’ottava classe. Poi ci sono le scuole rurali, dove si insegna a leggere e scrivere a tanti bambini che non vanno a scuola, e a Kokossa vorremmo costruire una scuola professionale. Anche per questa via possiamo avvicinare tante famiglie al vangelo».
Ma come si diventa cristiani in un territorio dove la presenza missionaria è così esigua?
«Non siamo noi preti che “facciamo nuovi cristiani”. Sono le persone che chiamano i loro amici, parenti... è un processo che avviene per contagio, lentamente, spesso secondo modalità che appartengono alla tradizione ancestrale del popolo oromo.
Il ruolo degli anziani, ad esempio, è fondamentale. A un centinaio di chilometri da Robe, in una cittadina chiamata Nansebo, sono stati loro a chiederci di avviare la presenza cristiana dopo che un membro stimato della comunità aveva conosciuto le nostre famiglie cristiane di Kofale e aveva lasciato nel suo testamento l’impegno a diventare cattolici. Gli anziani ci hanno chiamato, ci hanno dato i terreni per costruire una cappella e presto avvieremo anche un’attività casearia che sarà gestita dalle donne del posto.
A Kokossa, un’altra cittadina a 60 chilometri da dove risiedo, un gruppetto di persone si riuniva per la catechesi e la preghiera. Ho incaricato un nostro catechista di stare lì tre giorni e di approntare una scheda di ognuno per conoscerne età, lavoro, situazione familiare. Costruita la lista, abbiamo deciso di ammetterne una trentina al catecumenato, e gli altri come precatecumeni.
Lo scorso 19 giugno, per la Pentecoste – anche noi cattolici seguiamo il calendario della chiesa ortodossa copta – ho celebrato i primi battesimi e così è nata la prima comunità cattolica».
In mancanza di un clero locale, che ruolo giocano i laici?
«Importantissimo, e uno dei nostri impegni è proprio rivolto alla loro formazione, culturale e religiosa. Oggi abbiamo una ventina di persone che frequentano la scuola per catechisti che ho avviato, e abbiamo un corso di dottrina sociale per i membri del segretariato cattolico che è la struttura che tiene i rapporti col governo e si occupa di tutti i nostri progetti in campo sociale, educativo, sanitario visto che la chiesa cattolica in Etiopia non ha personalità giuridica ma è considerata una ong. Il segretariato della nostra prefettura si trova a Kofale e ha una quindicina di dipendenti, una buona metà dei quali sono musulmani».
In tempi segnati da una crescente tensione anti-islamica in Europa, come viene vissuta la vostra presenza in un paese in larga maggioranza musulmano?
«L’Etiopia è figlia di una storia antichissima, discende dall’unione di numerosi regni e ancora oggi è caratterizzata da una grande varietà di lingue, etnie e fedi religiose. Anche il cristianesimo è una presenza antica, proveniente dall’Egitto, e una parte della popolazione appartiene da secoli alla chiesa ortodossa copta mentre cattolici e protestanti sono una presenza assolutamente minoritaria.
Gli oromo, che si calcola siano almeno il 40 per cento dei 100 milioni di etiopi, in maggioranza sono musulmani, anche se vi sono regioni in cui è molto presente la religione tradizionale. È però un islam con cui si convive bene, al punto che registriamo anche conversioni.
Lo stesso direttore del segretariato cattolico era musulmano... e non ha avuto problemi nel momento in cui ha voluto diventare cattolico».
Non registrate pulsioni fondamentaliste? In fondo la Somalia, dove il movimento terrorista di Al Shabaab è molto vivo, è appena oltre la frontiera...
«La sensazione è che la frontiera sia molto controllata, ma nelle nostre cittadine arriva ben poco di quel che succede nel mondo. I mezzi di comunicazione sono molto precari, lo stesso Google tante volte è oscurato, la gente comune ha informazioni per sentito dire. È vero che si iniziano a vedere donne indossare il burqa e non so quale potrà essere l’evoluzione, ma per adesso con la comunità musulmana abbiamo buoni rapporti. Credo che dipenda dal fatto che le nostre attività sociali, educative, caritative sono uno spazio aperto di relazione, al di là della fede religiosa.
Ma forse la ragione più profonda va trovata nel modo in cui i nostri missionari hanno saputo camminare a fianco degli oromo. Aver scelto la loro lingua per tutta la liturgia, e non l’amharic che è la lingua ufficiale dell’Etiopia e quella usata anche dalla chiesa copta, ha fatto sì che siamo stati subito percepiti come una presenza attenta a integrarsi nel loro tessuto sociale, senza alcuna velleità da moderni colonizzatori».
Questo, in fondo, è sempre stato un aspetto distintivo dell’opera missionaria...
«Certo, e andrebbe messo di più in evidenza perché da qui passa la vera differenza tra il nostro impegno di inculturazione della fede e la presenza predatoria delle nazioni occidentali in Africa. Quando sono arrivato a Kofale, rovistando in un armadio di vecchi libri ho trovato una piccola grammatica della lingua oromo scritta da un certo padre Gaetano da Thiene e stampata dalla tipografia del seminario di Padova... ecco, se l’oromo, come altre lingue africane, è scritto in caratteri latini è proprio perché sono stati i missionari a elaborarne la grammatica dopo aver imparato la lingua del popolo. Perché il colonizzatore impone la sua lingua, il missionario si spoglia di tutto, anche della propria lingua, per adottare quella dei fratelli che incontra».
Molti padovani in questi mesi hanno accompagnato il suo nuovo servizio con la preghiera. E molti leggono i messaggi che affida al blog vescovoantonio.wordpress.com
«È un’iniziativa di cui tutto il merito va all’ufficio missionario. Da parte mia, anche qui seguendo una tradizione cara ai nostri missionari, mi sono ripromesso di tenere un diario giornaliero, prezioso per avere un’idea dell’evoluzione delle cose. In certi casi scrivo all’ufficio missionario e mando anche delle foto, perché l’informazione sulle nostre realtà è importante, per condividere quanto viene fatto sul versante dell’evangelizzazione e della promozione umana».
Come guarda, oggi, l’Etiopia all’Italia? È rimasto qualcosa dell’eredità coloniale?
«Almeno tra gli oromo direi proprio che non è rimasto alcun segno della nostra presenza coloniale, che è stata troppo breve e segnata peraltro da stragi orrende come quella seguita nel ’37 all’attentato a Graziani. D’altronde l’Etiopia celebra come festa nazionale la vittoria di Adua e il ritorno di Hailè Selassiè alla fine delle guerra... Piuttosto, qui registriamo una crescente presenza cinese, che sta creando negli oromo forti reazioni soprattutto per il fenomeno dell’accaparramento della terra da parte delle grandi società multinazionali».
E come guarda lei, al nostro paese e all’Europa?
«Guardandola a distanza, un po’ la vedo in maniera diversa. Mi colpisce il senso di scontentezza che si respira tra la gente, la ripulsa per la politica, la complessità della vita se paragonata a quella che viviamo in Africa. E mi fanno impressione gli sprechi, gli eccessi, a partire dal cibo, tanto più eclatanti se messi a confronto con la vita molto sobria, molto parca, quasi ai limiti della povertà dei nostri villaggi.
Sento il peso delle mille cose scandalose che pure sono perfettamente legali: penso alle cifre folli che si spendono per il calciomercato, giusto per fare un esempio. Inaccettabili, eppure lecite. E questo in fondo è lo scandalo maggiore, questa “anomia”, questa legge che non è più retta dalla giustizia e che per di più si fonda su un sistematico occultamento della verità.
Quando leggiamo sulla stampa che le città riconquistate all’Isis sono piene di mine antiuomo, perché non ricordiamo che siamo noi italiani a produrle e a vendere con l’avallo del governo? Questo non significa che non vi siano persone splendide, che non vi sia un bene immenso, come ci stanno dimostrando i tanti volontari che si stanno prodigando per le vittime del terremoto».
Più volte, da vescovo di Padova, lei ha messo in guardia la società dallo smarrire quella che amava definire la “grammatica dell’umano”.
«Già gli antichi sapevano che la società è come un corpo, e un corpo è tenuto insieme da un’anima, non solo da interessi materiali ma culturali, di fede, spirituali. Per troppo tempo abbiamo guardato solo ai primi... ma con quale risultato?
Pensiamo alla nostra Italia, pensiamo all’Europa: cosa ci tiene insieme? Cosa condividiamo? Basta il consumismo a soddisfare la persona? Io dico di no, e la crisi che ci sta attorno ne è la conferma. Ma è chiaro che questo pone grande responsabilità anche alle nostre comunità, e mi domando se oggi siamo in grado di assumere queste sfide.
Una cosa è certa: la politica da sola non può bastare. Men che mai una politica asservita agli interessi dell’economia».