All'Arcella casa Enselmini ospita malati e migranti insieme
Dal 2006, in un'ala del convento dei frati della parrocchia di Sant'Antonio all'Arcella, c'è casa Beata Elena Enselmini che accoglie malati in cura all'ospedale di Padova e i loro familiari e, da qualche anno, con un accordo con la Caritas di Padova anche una famiglia di migranti.
La solidarietà non ragiona mai a compartimenti stagni. Anzi, quando gli steccati si rompono e sofferenze diverse hanno modo di incontrarsi e di conoscersi, entrambe ne ricavano sollievo. È la storia che arriva dalla parrocchia di Sant’Antonio dell’Arcella, dove dal 2006 è attiva la casa di accoglienza Beata Elena Enselmini.
In questa casa, ricavata da un’ala separata ma attigua al convento dei frati conventuali, da undici anni sono ospitate persone che vengono a Padova per interventi e cure nel polo ospedaliero e i loro familiari venuti per assisterli. Dall’agosto del 2015, però, grazie a un accordo con Caritas Padova, la struttura ha scelto di dedicare una stanza anche all’accoglienza di famiglie di migranti, una alla volta. Fino a oggi sono quattro i nuclei ospitati: quello attuale, mamma, papà e una bambina di due anni, è di origine araba e tra poco si allargherà con un secondo bambino in arrivo.
La casa è gestita da un gruppo molto affiatato di volontari. Tra loro ci sono Nives Caregnato e Rosa Pasquetto: «I volontari sono ben organizzati – raccontano alla Difesa – il loro compito principale è tenere in ordine la casa, fare le pulizie, verificare che vada tutto bene. Questo, però, fa sì che ci si senta anche coinvolti emotivamente nella vita di queste persone, sia pazienti che familiari, sia migranti. Con questi ultimi il problema è la lingua, ma con i gesti, un linguaggio semplice e la loro voglia di imparare ci si comprende comunque».
Casa Beata Elena Enselmini è composta da alcune stanze, dalla lavanderia in comune, da un’unica grande cucina dove gli ospiti hanno occasione di stare insieme e di dialogare. Con lo sforzo di capirsi in lingue diverse, si condividono sofferenze diverse, che però uniscono. «Tutti sanno che cosa significa sofferenza – raccontano le volontarie – malati, familiari che assistono pazienti oncologici e trapiantati, profughi... Questa affinità aumenta lo spirito di accoglienza e di solidarietà reciproca, cancellando le barriere. È chiaro: nulla di tutto questo è immediato, ma conoscersi e parlarsi rende tutto più facile».
Alla radice del lavoro dei volontari c’è una sana reciprocità: «La nostra esperienza di volontariato ci fa viaggiare sempre con due borse: una per dare e l’altra per ricevere. Diamo, sì, ma quello che riceviamo è il centuplo». Non è comunque un compito facile: «Non sappiamo mai quanta sofferenza ci viene chiesto di condividere. Ascoltiamo i loro sfoghi, le loro paure, sapendo che ciò che viene condiviso in qualche modo permette loro di alleggerire i loro pesi».
E questo funziona: «Sono sempre sorridenti, sempre pronti a trovare un aspetto positivo nella loro situazione, riconoscendo la fortuna di vivere vicini a una comunità di frati. La prossimità a una comunità di religiosi per loro è motivo di consolazione». Le volontarie raccontano così l’arrivo di una coppia di migranti: «La moglie festeggiava il compleanno. Con i pochi soldi che aveva ha comprato una torta da condividere con gli altri ospiti – pazienti e loro familiari – e i volontari. Quando le abbiamo chiesto perché l’avesse fatto, ci ha risposto che ora era questa la sua famiglia».
La comunità parrocchiale viene spesso coinvolta nella vita della casa, sia nei momenti pubblici, nelle feste e nelle ricorrenze sia per dimostrare la sua pronta generosità: «Quando abbiamo avuto bisogno di un passeggino per una bambina di una famiglia di migranti lo abbiamo trovato proprio domandandolo ai parrocchiani: quando c’è un’esigenza il parroco, padre Nando, si fa portavoce e fa partire una mail verso la comunità».
In occasione della festa di san Francesco, a ottobre, anniversario dell’inaugurazione di casa Beata Elena, si raccolgono offerte e si ricorda l’importanza di questo polo di accoglienza. Anche gli ospiti partecipano alla vita della comunità, dalla sagra ad altri momenti di scambio e fraternità.
Nell’ottobre 2016 la casa ha celebrato i suoi primi dieci anni di vita (nella foto in alto a sinistra). Il parroco, padre Fernando Spimpolo, spiegandone l’apertura anche a una famiglia di profughi, scriveva alla comunità: «Storie ed esperienze nuove che si innestano in quelle di sempre, ma che hanno uno stesso denominatore comune che si concretizza nel comandamento dell’amore che Gesù ci ha lasciato: amare il prossimo»