#Sanremo2019. Le polemiche su Mahmood fanno paura: ecco perché ci serve una nuova era swing
Se il “Festival sovranista” viene vinto da un ragazzo per metà di sangue egiziano si scatenano le polemiche. Quale sarà il prossimo passo? Leggi razziali all'Ariston? Cacciare i Negrita e sgomberare i Nomadi? Cronache musicali da una paese profondamente diviso, che forse avrebbe bisogno di uno di quei ritornelli swing di una volta capaci di calmarci e ricordarci quanto bella sia la vita.
Non c’è Festival di Sanremo senza polemica. E in fondo, dare agli italiani qualcosa su cui discutere che non sia la politica, il calcio o le previsioni del meteo è da sempre uno dei grandi meriti della kermesse.
Ci si confronta, si polemizza, si litiga. Sempre. Quando vince una canzone "nazional popolare" si arrabbiano gli amanti della musica di qualità. Quando invece vince la "musica dotta" il popolo delle canzonette scende in piazza.
Come dimenticare le levate di scudi nel 1997 quando vinsero i "plebei" Jalisse, o nel 2000, dopo il trionfo degli “aristocratici” Avion Travel?
Polemichette fresche, a scadenza rapida. Nel paese dei guelfi e ghibellini, di Coppi e di Bartali, litigare su Sanremo non è che una palestra di esercizio retorico.
Ciò che sta avvenendo in queste ore ci sembra diverso. Molto diverso.
Contro ogni pronostico l'edizione numero 69 della sagra della canzonetta è stata vinta da tal Mahmood, un giovane rapper italiano, nato in Italia da madre sarda e padre egiziano, che da qualche anno bazzica la scena indie. Si è affacciato – anche con buoni risultati – nella scena mainstream con X-Factor, e, nel dicembre scorso, con Sanremo giovani.
La sua canzone, "Soldi", parla del rapporto difficile con il padre, che ha abbandonato la famiglia quando il cantante era ancora bambino. Musicalmente niente di eccezionale, ma comunque una canzone da 2019, certamente migliore rispetto alla concorrenza lagnosa di "Ultimo" e l'overdose di nazionalpopolare de "Il Volo", arrivati anche loro nella terna finale. Chiariamoci: non è stata una vittoria schiacciante. Una Loredana Bertè particolarmente in grazia, un impegnatissimo Daniele Silvestri e un sempre più mistico Simone Cristicchi probabilmente si sarebbero meritati ancora di più l’alloro, ma non c’è alcuno scandalo sull’affermazione – trainata dalla giuria di qualità – di Mahmood. La sua era una canzonetta orecchiabile, anche se niente di più.
Ma non sono “solo canzonette”, quando il “Festival sovranista” viene vinto da un ragazzo per metà di sangue egiziano. Il rapper, in conferenza stampa, ha cercato – inutilmente – di scacciare ogni polemica. «Io sono italiano, nato e cresciuto a Milano. Non mi sento tirato in causa. Nel brano ho messo una frase araba che è un ricordo della mia infanzia, ma sono italiano al cento per cento». Ma non basta. Nella notte, su Twitter e Facebook, orde di commentatori si sono appellati all’etnicità “la canzone italiana agli italiani”, ai complottismi, alle giurie “che hanno fatto un favore alla sinistra” fino agli immancabili “Io non sono razzista ma…”. Non è solo la massa informe a polemizzare: abbondano anche le “voci autorevoli”. Esimi ministri – di solito impegnati a ricordare a cantanti, sportivi, attori di occuparsi dei loro rispettivi campi senza impicciarsi di politica – si scoprono critici musicali e si sfogano sui social. La stimata giornalista che tra poche settimane occuperà la striscia post-TG1 che fu di Enzo Biagi, parla addirittura di "meticciato" in senso spregiativo. Quale sarà il prossimo passo? Leggi razziali all'Ariston? Cacciare i Negrita e sgomberare i Nomadi?
E poi – dall’altra parte – ci sono quelli che utilizzano la vittoria di Mahmood come momento di riscossa anti-razzista, o come sfottò verso “gli altri”, oppure – peggio ancora – perché ci crede veramente.
Forse è giunto il tempo di capire che abbiamo superato il livello base della discussione da bar utile a impratichirsi nell’arte del dibattito. Occasioni come questa ci aiutano a vedere come il nostro, oggi, sia un paese profondamente diviso, visceralmente arrabbiato, pronto a ringhiare e a mordere per ogni nonnulla. "Dov'è l'Italia?" cantava proprio a Sanremo 2019 Motta. L'Italia è anche questa.
E allora ci vorrebbe qualche canzonetta di una volta, quelle canzonette swing inoffensive che i nostri nonni ascoltavano tra gli anni ’40 e ’50, mentre il mondo là fuori bruciava o, ancora ferito, tentava di ripartire. C’erano il Trio Lescano, il Quartetto Cetra, Ernesto Bonino. E c’era quella musica, apparentemente disimpegnata, che dalle radio a manopole di legno entrava soave nei nostri salotti, come antidolorifico e dolcificante, e senza tanti ragionamenti, parole difficili o prese di posizione ricordava alle nostre anime, gorgheggiando e scalando le ottave quanto la vita sia bella. Ecco: all’Italia di oggi servirebbe uno di quei ritornelli lì. Per calmarsi, intanto, poi si vedrà.