Buon compleanno, Mr. Tamburino. Gli ottant’anni di Bob Dylan
La vena profetica di Dylan viene da lontano: dal trascendentalismo di Emerson, Withman, Thoreau, dalle tradizioni religiose ebraiche - le citazioni bibliche non sono rare nelle sue canzoni - cristiane, celtiche ma anche orientali.
Lungo le torri di guardia
i principi stavano all’erta
mentre le donne andavano e venivano
anche i servitori scalzi;
lontano nei campi
un gatto selvaggio ringhiò
due cavalieri si stavano avvicinando
e il vento cominciò ad ululare.
L’apocalisse. L’attesa. L’annuncio, e la rovina, la perdita, l’abbandono della casa per vivere la strada, il mito dell’hobo, il vagabondo, la libertà vera, quella dalla roba, avrebbe detto il nostro Verga. Anche questo è parte della religiosità dell’ottantenne Dylan – se amasse le feste taglierebbe la torta oggi, 24 maggio – al di là delle vicissitudini comuni a qualsiasi persona che cerchi la propria strada (la “conversione” dall’ebraismo nativo al cristianesimo, anzi, al fondamentalismo della Vineyard Fellowship nel 1979 e il ritorno due anni dopo alle sue radici religiose) sta anche in questo andare oltre. Oltre la pazza folla, certo, oltre le lusinghe dell’oggi, oltre le parole ammirate della gente che lo ama da sempre, perché è il profeta lisergico per eccellenza. Ma non perché facesse uso di droghe, come lui stesso ha ammesso, (le sue ammissioni talvolta sono proiezioni di un altro sé e non sempre corrispondono alla realtà): lo è stato in quanto cantore allucinato di una generazione che anche – e non solo, perché c’erano di mezzo anche l’afflato religioso, la mistica, la meditazione, i mantra – con le droghe, dagli spinelli all’eroina, tentava la via dell’utopia. Quella via che poi sarebbe sfociata o nella dipendenza, o nelle comuni dei figli dei fiori, o nei viaggi in Oriente, alcuni senza ritorno.
Dylan è riuscito a cantare le radici di tutto questo con una carica visionaria che non ha pari, come nel caso dei versi di “All along the watchtower” che abbiamo citato in apertura, resi celebri dalla allucinata, potente, distorta versione elettrica di Jimi Hendrix. E siamo ancora distanti dalla “conversione” alla Vineyard Fellowship. In realtà la vena profetica di Dylan viene da lontano: dal trascendentalismo di Emerson, Withman, Thoreau, dalle tradizioni religiose ebraiche – le citazioni bibliche non sono rare nelle sue canzoni – cristiane, celtiche ma anche orientali. Robert Zimmermann è riuscito a rendere omogenee queste suggestioni, a rifondarle in quell’antica unità – viva nella classicità e nel medioevo, Dante compreso – di parole e musica. In “Lasciatemi morire sui miei passi”, del 1963, vi è la sottile presenza del Cantico e del rapporto edenico tra uomo e natura: “Lasciatemi bere le acque/ dove i torrenti bagnano le montagne/ lasciate che il profumo e il bianco dei fiori/ scorra libero attraverso il mio sangue/ lasciatemi dormire nelle vostre valli/ tra i verdi steli d’erba/ lasciatemi camminare lungo la strada/ con il mio fratello in pace”.
Fortissima nelle sue canzoni è l’aspirazione verso una terra promessa da ritrovare attraverso il viaggio e l’utopia del nuovo giorno, come in “I shall be released”: “Dicono che ogni uomo ha bisogno di protezione/ dicono che ogni uomo deve cadere /ma io giuro che vedo il mio riflesso /troppo in alto sopra questo muro. /Vedo la luce che incomincia a brillare /dall’ovest verso l’est /da un giorno all’altro, adesso /io sarò liberato”. Il sacro, sotto forma di apparizioni angeliche, nello stupendo “Three angels”, di inno all’accettazione del viaggio, come in “If dogs run free”, di stupore di fronte alla presenza ammonitrice del solitario e del reietto (“Chimes of freedom”) o di visioni blues (“Visions of Johanna”) o di apparizioni, come in “I dreamed I saw saint Augustine”, è una costante nella poetica dylaniana: a patto di essere consapevoli che il linguaggio del sacro non è quello di duemila anni fa. Nel caso del premio Nobel 2016 per la letteratura non sarebbe sbagliato parlare di “visioni” elettriche. In tutti i sensi.