Giugno 1915: buon cibo e bei vestiti, si va alla guerra!
Giugno 1915, primo mese di guerra per l'esercito italiano. Nel numero del 13 giugno la cronaca dell’inviato di guerra Athos Gastone Banti fornisce indicazioni tranquillizzanti sul trattamento dei soldati in prima linea, dal rancio all'abbigliamento.
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La Difesa del 13 giugno 1915 propone una rassicurante relazione sul trattamento della truppa italiana con un articolo dedicato a “il nutrimento dei soldati”
Essi erano, secondo l’inviato speciale del Giornale d’Italia Athos Gastone Banti (uno dei quattro assi del poker del giornalismo di guerra insieme a Luigi Barzini senior, Guelfo Civinini e Arnaldo Fraccaroli) «benissimo nutriti: 350 grammi di carne, 750 di pane, pasta, vino, anice, caffé, oltre a 50 centesimi di soldo. Un rancio che è – bisogna dirlo – molto invigilato e per ciò molto “soigné”».
Ma non solo: i soldati italiani sono anche «benissimo vestiti ed equipaggiati: è incredibile la quantità di oggetti di grande utilità, dalla fascia addominale e dal farsetto a maglia alle scarpe di ricambio, dal pacchetto delle medicazioni al filo agli aghi, al sale ecc. che ogni soldato riceve. Gli uomini che ora militano per i destini d’Italia, in questa Italia redenta, hanno tutto quello che occorre – oltre la fede, il buon comando e le armi – per bene e degnamente combattere».
In verità, si può oggi dire che la razione giornaliera di cibo fornita ai soldati italiani non fu mai “da fame”, anche se andò diminuendo soprattutto nel 1916, quando erano al fronte ormai due milioni di soldati e il sistema produttivo nazionale andò in crisi; fu necessario ricorrere alle importazioni massicce di grano e di carne, condizionate però dalle capacità di carico delle navi, insidiate dal blocco sottomarino tedesco.
Ciascun soldato riceveva ogni giorno circa tremila calorie attraverso 650 grammi di pane, 150 grammi di carne, 100 grammi di pasta o riso, talvolta frutta e verdura, un quarto di vino, caffè. Le truppe in zona di operazioni e gli alpini avevano diritto a una razione maggiorata.
Spesso la carne era distribuita in scatolette (ne furono prodotte 230 milioni solo in Italia).
I soldati in molti casi si nutrivano meglio di quando erano civili, anche in una regione come il Veneto che stava ancora combattendo contro fame e pellagra.
In realtà il problema del rancio in trincea era soprattutto di ordine igienico e legato alle difficoltà di raggiungere ogni reparto di prima linea. Le casse di cottura, a tenuta stagna, in cui il cibo continuava a cuocere, non garantivano l’arrivo degli alimenti caldi; pasta e riso cotti nelle retrovie talvolta giungevano al fronte come ammassi gelatinosi che non miglioravano affatto nemmeno quando venivano riscaldati sui piccoli “scaldarancio” a disposizione delle truppe.
Spesso la vera carenza era nell’acqua potabile, mentre il vino (un quarto di litro al giorno) era ritenuto insufficiente e buona parte della paga del soldato se ne andava per acquistarlo.
Facendo un confronto con gli altri eserciti, i francesi ricevevano pressapoco la stessa quantità di cibo degli italiani, mentre il rancio degli inglesi era nettamente superiore (più di quattromila calorie).
Molto peggio andava ai soldati tedeschi e austriaci, soprattutto verso la fine della guerra. Ai combattenti in prima linea venivano distribuiti 200 grammi di carne alla settimana (solo cento ai militari in seconda linea). Il pane era di scarsa qualità, mescolato con segatura e crusca.
Il vino e il pane erano la preda più ambita, al punto che gli austriaci cercavano di occupare, anche temporaneamente, le trincee italiane in modo da sottrarre uova, limoni, vero caffè, cioccolato, zucchero, gallette, marmellata e, soprattutto, vino e scatolette. Un ufficiale inglese sull’Altopiano racconta che l’attacco austriaco alla sua postazione rallentò a un tratto perché i soldati avevano trovano un deposito di brandy in una delle trincee conquistate.
Talvolta non occorreva nemmeno combattere perché tra nemici si “fraternizzava” scambiando pane con tabacco.
Anche ai civili la guerra impose severe limitazioni: i lavoratori asburgici ricevevano solo 165 grammi di pane e 28 grammi di carne al giorno.
Il racconto dell'inviato del Giornale d'Italia
Piove. La mente ricorre, istintivamente, ai soldati. Sotto la tenda, si pensa, e in trincea, quanta umidità! Quanto fango!
Certo, i disagi di queste prime giornate di assestamento, quasi direi di “tastamento” sono notevoli. L’acqua intride il terreno dovunque: e la fatica degli uomini e degli animali è, senza dubbio, aggravata dall’umidità dell’aria e dalla morbidezza del suolo appiccicaticcio.
Ma non si creda che la vita sotto la tenda e nelle trincee sia così dolorosa come parrebbe al profano. Quando la tenda è fatta bene, col suo fossetto intorno per lo scolo delle acque, ci si sta, dentro, come in casa propria.
Le trincee poi coi cunicoli ottimamente scavati, sono piccoli formicai magnificamente disposti, in cui si vigila e in cui si può anche dormire all’asciutto.
La vita è rude, ma è gaia. E la salute è ottima. Un tenente medico del ... fanteria mi diceva ieri: «Non un soldato mi manca. La gioia d’esser dinanzi al nemico, il fervore della battaglia incominciata, l’entusiasmo collettivo sono dei meravigliosi energetici. Quella lieve percentuale di ammalati e i “fiacconi” – che nelle manovre e anche soltanto nella vita di caserma galleggia, ogni mattina, sul grosso dei soldati resistenti alle fatiche, è scomparsa. Non si troverebbe più un malato a pagarlo un occhio del capo».
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