23 dicembre 1917: davanti alla Regina del Grappa si fermò anche Rommel
La prima pagina messa del 23 dicembre 1917 apre un numero di sole due paginette che interrompe la sospensione di un mese dei notiziari, decretata dall’Associazione stampa padovana dopo Caporetto.
Ed è proprio l’Associazione stampa a fare ora voto che i giornali «riprendano al più presto le ordinarie pubblicazioni ispirandosi ai criteri di economia che le difficoltà industriali consigliano, anche per assicurare una vita regolare e duratura, conformemente ai bisogni della cittadinanza». Anche la Difesa quindi, «vinte le difficoltà maggiori che avevano imposto la sua sospensione» riprende le sue pubblicazioni ordinarie.
“L’epica lotta tra Brenta e Piave”
Con questo titolo la Difesa annuncia nel numero del 23 dicembre 1917, dopo Caporetto, che la cosiddetta “battaglia d’arresto” sul Piave, sugli Altipiani, sul Grappa è in corso. E proprio il Grappa è menzionato, in forma particolare, nel bollettino di guerra riportato in quest’occasione: «Specialmente accaniti sono stati i loro sforzi (degli austro tedeschi ndr) per impadronirsi delle alture che circondano il monte Grappa, sforzi che, avendo loro dato solo vantaggi parziali ed insignificanti, hanno loro procurato gravissime e sanguinose perdite».
Queste parole definiscono, in termini come sempre piuttosto enfatici, forzatamente rassicuranti ed eccessivamente ottimistici, quello che si stava svolgendo in quell’aspra terra della diocesi di Padova, nei comuni di Borso e Crespano, dove la neve quell’anno tardava a cadere con la consueta abbondanza. Su quelle vette, sotto gli occhi pietosi della Madonnina, collocata sulla cima del massiccio e benedetta da Pio X, allora patriarca di Venezia, il 4 agosto 1901, si stava in realtà svolgendo la più difficile resistenza italiana allo sfondamento nemico.
Il Grappa fin dall’anno prima, dopo la Strafexpedition, era stato individuato da Cadorna come perno della difesa estrema, in caso di un cedimenti del fronte allora solo vagamente temibile.
Ma quando l’imprevedibile avvenne, quella preveggenza aveva portato solo alla realizzazione di una strada camionabile di trenta chilometri, larga appena tre metri e quindi insufficiente per i grossi calibri, con pareti in alcuni tratti pericolanti, due teleferiche, un impianto di sollevamento dell’acqua, qualche piazzola per le armi automatiche.
Poca cosa rispetto a quel “caposaldo fortemente armato” che Cadorna avrebbe voluto e che fu iniziato solo il 12 novembre 1917, con l’attacco imperiale in corso, quando mancava perfino il filo spinato e nessun riparo esisteva per sottrarre i reparti agli effetti del bombardamento nemico. Poca cosa neanche per alloggiare al coperto le truppe del 18° corpo d’armata, frettolosamente schierate, che furono costrette a dormire all’addiaccio, sotto un’improvvisa, gelida bufera, con una sola coperta a testa. E l’esercito austrotedesco, composto da truppe scelte come la divisione Edelweiss, la prediletta dell’imperatore Carlo, la Jager che aveva fama di essere tra le più aggressive dell’esercito tedesco, l’Alpenkorps germanico, attaccò, con determinazione, con accanimento, convinto di avere davanti un nemico disgregato e demoralizzato dal fresco scacco friulano.
La prima battaglia del Grappa, secondo gli storici militari, si svolse in due fasi, una di 14 giorni, dal 13 al 26 novembre, e una di 12, dall’11 al 23 dicembre.
Fu usata la stessa tattica di Caporetto, con tentativi di infiltrazione nei fondovalle per aggirare il massiccio, ma questa volta l’espediente non riuscì, le valli erano sbarrate. Alla fine dei combattimenti, gli italiani apparivano attestati sugli estremi lembi della montagna, dopo la perdita di cime importanti come il Pertica, perso e ripreso tante volte, e l’Asolone.
Però le cime principali erano ancora nostre, il fronte aveva tenuto, la crisi di Caporetto appariva superata e il giovane tenente Erwin Rommel, che aveva partecipato attivamente allo sfondamento orientale e che ora si trovava a combattere sul Grappa, dovette constatare: «Ormai mi rendo conto che non è più il caso di parlare di uno sfondamento alla svelta attraverso il monte Grappa nella direzione di Bassano. Il fronte nemico è sbarrato e forte. Siamo arrivati troppo tardi».
Non a caso l’ultimo numero dell’anno della Difesa, che porta la data del 30 dicembre, titola: “Il mancato Natale nemico a Bassano!”.
Vi si raccolgono le testimonianze dei prigionieri che speravano di passare le feste facendosi il regalo di impadronirsi dei ricchi magazzini militari italiani. E magari, come era accaduto dopo Caporetto, saccheggiando le cantine... Ma quelle del 1917 non furono comunque feste tranquille; non si poteva certo parlare, nemmeno pensare alla “tregua” spontanea che si era pur sporadicamente verificata negli anni precedenti. Si parlò anzi di “Natale di sangue” perché proprio in quei giorni le truppe del generale Conrad, costantemente proteso a sfondare sull’Altopiano dei Sette comuni, riuscirono a espugnare le Melette di Asiago. Per fortuna il 26, finalmente, iniziò a nevicare copiosamente e la spessa coltre bianca fermò ogni residua velleità d’assalto.
Il settimanale diocesano in quel numero racconta l’interessamento del papa per i prigonieri di guerra e l’impegno per il collocamento dei profughi, su cui sta lavorando l’ufficio centrale di collocamento e lavoro alla guida del quale è stato chiamato Giuseppe Corazzin, direttore dell’ufficio cattolico del lavoro di Treviso.
L’istituto, precisa la Difesa, «mira anche alla difesa degli interessi morali, economici, sociali dei profughi e alla tutela delle loro famiglie delle quali eviterà il più possibile il frazionamento. L’ufficio spera di non aver così concorso invano, pel giorno nel quale colla pace vittoriosa il Veneto forte, sano, puro richiamerà i suoi figli, a resituirglieli forti, sani, puri come quando, sospinti dall’uragano, chiesero alla patria protezione e lavoro».
Abbiamo scritto
«Nel Veneto – scrive in prima pagina la Difesa del 23 dicembre 1917 – avviene in questi giorni un fatto che sarebbe grave jattura allo stato e alle classi dirigenti il non avvertire. Mentre dai paesi ora invasi i ricchi sono fuggiti, i preti sono rimasti e rimangono tutti. Rimangono perché il Pontefice ha ordinato loro di restare e soprattutto perché sentono che è loro dovere austero di restare. Compion così non solo un alto ufficio cristiano, ma insieme – me ne dispiace per i settari dei partiti loro avversari – un’altissima opera di resistenza civile e di virtù patria».
«Nessun conforto infatti più salutare, nessun sprone al soldato più efficace a compiere sino in fondo il suo aspro dovere che sapere come nel villaggio lontano c’è un uomo per la maestà dell’officio venerando che veglia sulla sua famiglia, protegge e difende le sue creature. Ma così anche, mentre si menoma l’autorità dello stato e delle classi dirigenti, si consolida una potenza formidabile, perché fondata sulla gratitudine delle popolazioni, illuminata dall’aureola dei sacrifici sofferti per l’esercizio della propria missione. Se questo avessero preveduto i sindaci dei paesi invasi se man mano che incalza la stretta questo capissero gli uomini maggiori di ogni terra minacciata, noi piangeremmo un giorno molte minori vittime di quante dovremo annotare. Ma se lo stato non interviene con la forza che gli è propria a riaffermare i trepidi, costringere i fuggiti, disciplinare gli sbandati, c’è da temere per il suo prestigio. E c’è da disperare più che tutto per le classi dirigenti (...) Così la Stampa, giornale liberale».
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