Storie di affidi falliti. "Riportarlo in comunità è la cosa più difficile che ho fatto"
Li chiamano “resi” e sono i bambini che tornano in comunità perché le famiglie affidatarie non riescono più a gestire la convivenza. Storie che si lasciano una scia di dolore alle spalle e che forse potrebbero essere evitate
Liang (nome di fantasia) è arrivato a casa di Sabrina ad aprile del 2020 ed è andato via il 4 agosto. Se quella partenza sia stata un bene o un male per lui è difficile da stabilire, ma si è lasciato tanto dolore e sconcerto alle spalle. Sabrina, la sua mamma affidataria per quei mesi, ancora non riesce a metabolizzare l’accaduto. Per lei quella rinuncia è un fallimento personale, un’insolvenza che non riesce a perdonarsi. Liang non è il primo bambino che Sabrina e suo marito prendono in affido. Hanno due figli biologici di 31 e 29 anni e oltre 10 anni di esperienza come genitori affidatari. Per casa loro sono passati diversi ragazzi in affidamento temporaneo fino a che, circa quattro anni fa, è arrivato Marco (anche questo è un nome di fantasia), un bambino italiano di otto anni con la sindrome fetoalcolica e un grave ritardo cognitivo. Marco ha alle spalle un percorso tormentato, ma stando con Sabrina fa grandi progressi e, soprattutto, si rassicura. Anche Sabrina è serena, si sente forte, le piace essere utile, si sente in grado di prendersi cura di un secondo bambino oltre a Marco. “Nel 2019 i servizi sociali ci prospettano la possibilità di prendere in affido un piccolo con una disabilità molto grave – racconta –. Ha una patologia cerebrale emersa fin dalla nascita, non cammina e non parla. Ma tra il 2019 e il 2020, quando arriva a casa nostra, la sua situazione peggiora. Fino a che è stato con la mamma riusciva a mangiare se imboccato, ma da quando è andato a vivere in comunità la sua condizione generale è peggiorata: gli è stato messo il sondino e, insieme alla capacità di mangiare, ha perso la maggior parte delle sue abilità, compresa quella di interagire con gli altri”.
Un affido difficile
Quando Liang arriva a casa di Sabrina e suo marito, nel Mugello, l’Italia sta sperimentando il primo lockdown per via dell’emergenza da covid 19. Il piccolo ha tre anni e mezzo e dei bisogni assistenziali elevati, la nuova famiglia arranca. “I figli biologici e gli altri parenti non comprendevano la nostra decisione di accogliere Liang e, soprattutto, a causa della pandemia non riuscivamo ad avere un aiuto esterno”, dice ancora Sabrina. Dopo un po’ anche Marco, che in un primo tempo appare partecipe e collaborativo, comincia a risentire della presenza del nuovo arrivato. Il piccolo piange spesso, è irrequieto ed ha molti problemi. Per quattro volte si strappa il sondino e per quattro volte finisce all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze. “L’ultima volta gli hanno messo la Peg, ci hanno fatto in tampone per il covid e ci hanno ricoverato – ricorda Sabrina –. Siamo stati sei giorni isolati in ospedale, io e lui, in attesa di capire chi avrebbe dovuto dare l’autorizzazione per l’intervento, visto che noi in quanto genitori affidatari non potevamo farlo”. Nel frattempo Marco è sempre più in difficoltà, a occuparsi di lui ora sono il marito di Sabrina e la figlia rientrata nel Mugello per dare una mano a sua madre. “Marco era disperato per la mia assenza, con me ha un rapporto simbiotico. Sono il suo punto di riferimento”. Poi quando Sabrina e Liang tornano a casa è il tracollo. “Liang non riusciva più a dormire per via della Peg, gli era venuta una bolla acquosa, soffriva, perdeva sangue. Marco, che è molto empatico e sente il dolore degli altri sulla propria pelle, era totalmente in panico, non sopportava più la presenza dell’altro. Non siamo riusciti a trovare una strada, non c’era nessuno che ci desse una mano, dopo due mesi in questo modo siamo stati costretti a rinunciare”.
La fine di un percorso
Liang si è trasferito in una comunità per bambini gravemente disabili, ma da quel giorno Sabrina non ha avuto più notizie di lui. Preparare le sue cose e accompagnarlo in comunità è stata una delle cose più difficili che ha fatto nella sua vita. Era giunta alla convinzione che quella convivenza non portasse giovamento a nessuno. Sabrina ha accettato l’allontanamento di Liang perché temeva per l’equilibrio di Marco, così faticosamente costruito negli anni. Ha cercando di metterlo in salvo e, dopo la partenza di Liang, ha attivato un percorso psicologico che consentisse a Marco di sfogare la rabbia nei propri confronti. Dal giorno della partenza di Liang, però, Sabrina ha perso la serenità. Si macera al pensiero di quello che avrebbe dovuto fare e non ha fatto, di quello che non avrebbe dovuto fare e invece ha fatto.
Bambini resi
Il caso di Sabrina, tuttavia, non è unico e forse neppure tanto raro. In gergo li chiamano bambini “resi” e difficilmente le loro storie varcano i confini di quella ristretta cerchia di famiglie, di assistenti sociali, di giudici minorili che ruotano intorno al mondo semi-nascosto degli affidi e delle adozioni familiari. Un mondo che racchiude storie bellissime, ma anche tanta sofferenza e difficoltà di ogni tipo. Di questi bambini l’opinione pubblica non parla quasi mai e, soprattutto, si ignora la dimensione del fenomeno. “Quando si parla di affido nessuno parla mai dei bambini ‘resi’, perché per legge l’affido è un istituto a termine – spiega Emilia Russo, presidente dell’associazione M’aMa dalla parte dei bambini, più nota come la Rete delle MammeMatte –. In teoria la restituzione rappresenta la conclusione di un progetto, ma di fatto la maggior parte degli affidi sono ‘sine die’: Tribunali, servizi sociale e famiglie sanno che l’affidamento del minore non avrà un termine, perché la famiglia d’origine molto difficilmente riuscirà a prendere di nuovo il bambino con sé”.
Il punto di vista del giudice minorile
Vittoria Manolio, nei suoi oltre dieci anni come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Roma, di casi come questi ne ha visti parecchi. Il suo, però, è soprattutto un invito a inquadrare la questione dei bambini “resi” (termine che personalmente preferisce evitare) all’interno della cornice giuridica che regola i rapporti tra le famiglie, i bambini e i servizi sociali: quella legge 184 del 1983 sull’adozione e l’affidamento dei minori che sancisce il diritto di ogni bambino ad avere una famiglia. “A fronte di un percorso di accoglienza ci può essere l’acquisizione della consapevolezza di una difficoltà da parte della famiglia e una richiesta di aiuto ai servizi sociali, cosa sempre prevista per legge nel progetto di affidamento familiare e nei percorsi di adozione – spiega –. La famiglia che accoglie il bambino si può sentire in difficoltà e i servizi sociali possono intervenire in supporto o accompagnarla alla chiusura di questa esperienza. È chiaro che, dal punto di vista della famiglia e del bambino, si tratta di una situazione estremamente critica e drammatica e, specialmente per i minori, rappresenta un elemento di stress che sarebbe opportuno evitare. Bisognerebbe essere molto consapevoli, formati e supportati nei percorsi di affido e di adizione, perché il rischio di esporre il bambino a un ulteriore elemento traumatico è reale e, quindi, si dovrebbe evitare”.
Il trauma di tornare in comunità
“Anche se in termini di legge non si tratta di un abbandono, il ritorno in comunità rappresenta sempre un trauma per il bambino, che forse non troverà mai più una famiglia – puntualizza Emilia Russo –. Come MammeMatte cerchiamo di avere un atteggiamento non giudicante, accogliamo e raccogliamo anche i cocci delle famiglie che restituiscono i bambini, magari dopo alcuni anni, perché sappiamo che anche questo è un percorso doloroso i cui effetti accompagneranno per sempre quelle famiglie”. Sebbene non esistano statistiche e i servizi sociali parlino piuttosto di “cambiamento del progetto”, tra gli addetti ai lavori e le famiglie affidatarie l’esistenza del fenomeno dei bambini “resi” è cosa nota. Delle circa 70 famiglie che hanno preso un bambino in affido attraverso l’associazione M’aMa quelle che hanno fatto un “reso” sono 6. Certo, le MammeMatte si occupano di trovare una famiglia ai quei bambini che in gergo, e con un termine altrettanto “doloroso” di “resi”, vengono definiti “incollocabili” perché malati o disabili, con un passato di abuso o violenza alle spalle, troppo grandi o inseriti in gruppi di fratelli che i giudici del Tribunale per i minorenni preferiscono non dividere. Ma la restituzione non interessa soltanto questa particolare tipologia, perché tutti i bambini che vanno in affido sono bambini “compromessi” e quindi potenzialmente difficili da gestire.
Tutti i bambini che vanno in affido sono “difficili”
“Il modus operandi delle famiglie che fanno i ‘resi’ è quasi sempre lo stesso – osserva la presidente di M’aMa –. Ammettere di non farcela è faticoso, quasi nessuno riesce ad autodenunciarsi. La responsabilità è sempre attribuita ai servizi sociali o allo stesso bambino, che è diverso da come era stato descritto prima di essere accolto. Ma quando i bambini entrano in famiglia cambiano sempre rispetto a come erano quando vivevano in comunità. I bambini che vanno in affido sono quasi tutti problematici, anche se non presentano problemi di salute, perché hanno subito violenze, maltrattamenti, incuria”. Insomma, chi prende un bambino in affido sa, o dovrebbe sapere, che non sarà un’impresa semplice. Ci vuole pazienza, determinazione, equilibrio, la consapevolezza che il percorso sarà irto di ostacoli. “Hai un figlio, ma per quel figlio non puoi decidere nulla, perfino mandarlo dallo psicologo può diventare un problema, perché non sei tu ad avere la responsabilità genitoriale – precisa Russo –. Bisognerebbe per lo meno normare l’affido sine die, dando maggiore potere decisionale alle famiglie affidatarie”.
Consapevolezza, formazione, rete
In questo difficile percorso le parole d’ordine sono, allora, consapevolezza, formazione, rete: “Bisogna sapere a cosa si va incontro, fare formazione e, soprattutto, restare in contatto con il mondo dell’affido anche dopo l’arrivo del bambino – tira le fila la presidente di M’aMa –. È importante frequentare i gruppi auto-mutuo-aiuto e usufruire di tutte le opportunità messe a disposizione dai servizi sociali del territorio di appartenenza. A volte, infatti, sono le stesse famiglie a non volersi fare aiutare, arrivano da noi quando sono alla canna del gas. E invece bisognerebbe chiedere aiuto per tempo e fare leva sulla forza della rete”.
L’unione fa la forza, insomma. Anche in questo caso. Forse soprattutto in questo caso.