Prima di tutto, è un gioco. Un richiamo ad un giusto rapporto dei genitori e delle famiglie con lo sport dei propri figli

La dimensione iper-competitiva che accomuna tutto l’agire del mondo occidentale non aiuta i nostri figli a vivere serenamente le attività sportive che intraprendono

Prima di tutto, è un gioco. Un richiamo ad un giusto rapporto dei genitori e delle famiglie con lo sport dei propri figli

Molto spesso davanti agli spalti dei campetti di calcio compaiono cartelli con inviti ai genitori a non insultare l’arbitro e a non trascendere in tifo offensivo nei confronti della squadra rivale. Si potrebbe sperare che sia una raccomandazione pleonastica, ma purtroppo non è affatto così. È un segnale evidente di quanto sia importante vigilare perché l’attività sportiva dei nostri ragazzi, in età sempre più precoce, invece di essere un luogo in cui coltivare valori edificanti, si trasformi in un terreno dove sfogare frustrazioni ed istinti non controllati. Effettivamente l’esasperazione del tifo calcistico è tristemente agli onori della cronaca non solo nell’ambito della massima divisione e delle altre categorie di professionisti, ma è un fenomeno che si sperimenta anche in ambito dilettantistico molto presto. Vi sono ragazzi, anche molto piccoli, sottoposti ad una pressione psicologica da parte dei genitori, degli allenatori e di tutto l’ambiente che, magari senza che inizialmente se ne accorgano, li porta a vivere quello che dovrebbe essere uno svago (ovvero appunto uno sport), in una competizione senza esclusione di colpi, in cui vincere e primeggiare è un imperativo categorico, anche a prescindere dal rispetto delle regole e della buona condotta. Papà dall’apparenza compassata e responsabile rischiano di perdere il controllo e si concedono esternazioni irripetibili nei confronti del direttore di gioco, o ai danni degli avversari, oppure vorrebbero entrare in campo e dare loro indicazioni strategiche e consigli al posto degli allenatori. Se il calcio, per antica tradizione italica, è lo sport in cui questa deriva si manifesta con più evidenza, ciò purtroppo avviene anche nelle tante altre discipline che vedono impegnati i nostri figli durante l’età scolare. Bisogna vincere assolutamente e l’altro da avversario con cui confrontarsi diviene un nemico da annullare, oppure il cronometro è un tirannico metro di giudizio ad ogni prestazione. Quando ciò avviene è chiaro che si sta perdendo l’equilibrio fra le due regole auree, ovvero che vinca e il migliore e l’importante è partecipare.

La dimensione iper-competitiva che accomuna tutto l’agire del mondo occidentale non aiuta i nostri figli a vivere serenamente le attività sportive che intraprendono ed è necessario un surplus di responsabilità da parte delle famiglie che sono chiamate a trasmettere ai ragazzi da un lato il giusto sprone a migliorarsi, e superare i propri limiti e dall’altro la consapevolezza che l’attività sportiva non è un fine in sé stesso, ma uno strumento per una crescita armonica della persona. In questi ultimi tempi stiamo ammirando i trionfi continuati e sempre più convincenti di un giovanissimo quanto grande tennista: Jannik Sinner. Ebbene, a leggere le dichiarazioni dei suoi primi allenatori, è significativo il rapporto che i suoi genitori hanno saputo instaurare con lui fin dall’inizio della sua attività sportiva. Il 23enne campione altoatesino aveva iniziato da ragazzino sciando con ottimi risultati a livello nazionale, ma ha poi optato per il tennis e già questa libertà di scelta è facile immaginare che sia nata in un sereno clima di discernimento famigliare. Poi, anche quando i giochi si sono fatti man mano più seri, da parte dei genitori di Jannik c’è sempre stata la richiesta ai suoi allenatori a che lui non si sentisse costretto a fare qualcosa di cui non era convinto. Si capisce il perché Sinner continui a ringraziare la sua famiglia ad ogni vittoria e non manchi di dire che sta crescendo come persona e non solo come atleta. Abbiamo bisogno di esempi come il suo, in cui i risultati sportivi – anche quelli più esaltanti – sono sicuramente frutto di un talento raro e di una dedizione non comune, ma beneficiano anche di una saggezza preziosa che rispetta l’indole in formazione di un figlio e gli ricorda che è amato e apprezzato a prescindere dai suoi risultati. Quando vi è questa certezza e non c’è da conquistare a suon di goal o di punti la stima e l’affetto dei propri cari è allora che i nostri figli possono dare il massimo divenendo prima che sportivi, uomini migliori.

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Fonte: Sir