Quando i libri servono per capire meglio la realtà intorno a noi. Letteratura come impegno
Se c’è una cosa che impressiona, guardando bene anche al passato, è la forte attenzione degli scrittori a ciò che accade intorno a loro.
In tempi in cui drammatiche emergenze come la desertificazione, l’immigrazione, la fame e la sete, la povertà occupano spazi sempre più ampi nell’informazione, qualcuno si chiede se la letteratura abbia ancora una sua funzione sociale. Qualche decennio fa infatti venne decretata la sua morte per inutilità, mentre se c’è una cosa che impressiona, guardando bene anche al passato, è la forte attenzione degli scrittori a ciò che accade intorno a loro. Basti pensare all’Ippolito Nievo de “Le confessioni di un italiano” uscite postume nel 1867 che narrano soprattutto la fine della repubblica veneta ma più in generale il difficile e contraddittorio cammino verso l’unità d’Italia.
Gli stessi Promessi sposi manzoniani avevano affrontato il problema della sottomissione della nostra penisola a potenze straniere, approfondendo anche la questione delle condizioni critiche di un popolo che pagava sempre di persona con la fame e la violenza il conto delle aristocrazie al potere. L’attenzione al sociale inoltre divenne un vero e proprio comandamento per alcuni scrittori francesi, i cosiddetti naturalisti, con a capo Emile Zola, che raccontò con maggiore precisione documentaria la condizione della nuova classe operaia nel processo di industrializzazione della Francia di Napoleone III. Ma è in Italia che si assiste, grazie a Verga, ad un mirabile incontro tra l’ansia di documentare impassibilmente la condizione dei contadini e minatori siciliani e una inevitabile e manifesta partecipazione alle loro vicende, come in “I Malavoglia” o “Rosso Malpelo”.
Con la storia la letteratura deve farci i conti, volente o nolente. Se vogliamo rimanere nel Belpaese (ma ci sarebbe da citare Dickens in Inghilterra, ad esempio, o Steinbeck e Dos Passos negli Usa, anche se sarebbero solo pochi nomi) non possiamo dimenticare Ignazio Silone, che ha rappresentato in “Fontamara”, “Vino e pane” o in “Una manciata di more” l’incontro tra una resistenza morale ed una resistenza sociale al potere, legata al mondo arcaico della campagna. Fino al punto di far incontrare il messaggio evangelico e liberatore del Cristo con il socialismo militante: “Il Divin Salvatore le appare vestito di un lungo camice rosso e non aprì bocca, ma le mostrò il proprio cuore, sul quale erano incisi, a lettere d’oro, i nuovi simboli della falce e del martello”. Bacchelli, nel “Diavolo al Pontelungo” ha narrato il tentativo insurrezionale di Cafiero e Bakunin nel 1874; alla resistenza si dedicarono Beppe Fenoglio, con il Partigiano Johnny, edito postumo nel 1968 e Pavese, fino al manifesto della resistenza al femminile, L’Agnese va a morire di Renata Viganò, edito nel 1949. Non è mancata una letteratura aperta si problemi della condizione operaia, come Ottiero Ottieri in “Donnaruma all’assalto” o con i “Tre operai” di Carlo Bernari o, ancora, “Il fabbricone” di Giovanni Testori. Siamo praticamente rimasti solo in Italia, perché il discorso sarebbe stato davvero lunghissimo: ai giorni nostri possiamo leggere molti romanzi che descrivono il combattimento della natura con il cosiddetto progresso: il che vuol dire che la letteratura e la società non sono mai state lontane, né ieri, né oggi.