Non solo favole. L’eredità di Tolkien a 130 anni dalla sua nascita
Tolkien non è un inventore di favole per bambini, anche perché la favolistica classica, che riduceva gli animali a copie parlanti degli uomini, gli dava un certo fastidio.
Cosa ci ha lasciato John Ronald Reuel Tolkien a 130 anni dalla sua nascita in Sudafrica, dove il padre, inglese, lavorava come bancario, dopo il successo planetario – grazie anche alla pletora di film, uno dei quali, diretto dal “solito” Peter Jackson, ha vinto 11 Oscar nel 2004 -, del Signore degli anelli e de Lo Hobbit? Intanto una marea di saggi, articoli, tesi di laurea sulla sua produzione non solo narrativa, ma anche poetica e scientifica, perché era un docente di filologia germanica e profondo conoscitore di lingue antiche come il sassone o il finlandese e di culture preesistenti alle invasioni anglosassoni e poi normanne, come quella celtica.
La sua attività di studioso procede di pari passo con quella di inventore di lingue nuove – cui però non erano estranei i sostrati celtico-sassoni e i particolari suoni del finlandese – esemplate nei nomi apparentemente stravaganti del Signore degli anelli. Ma Tolkien non è un inventore di favole per bambini, anche perché la favolistica classica, che riduceva gli animali a copie parlanti degli uomini, gli dava un certo fastidio, e neanche un abile creatore di allegorie che nascondessero chissà quali verità: nelle sue lettere si nota una radicale antipatia proprio per l’allegoria e la complessiva attrezzatura della retorica, di cui salvava solo il simbolo. Perché il simbolo non traduce retoricamente codificando figure stabilite una volta per tutte, ma è parte integrante della verità che si tenta di esprimere.
I suoi elfi, e gli orchi, e i combattenti per la giustizia, sono simboli dell’eterna lotta tra il bene e il male, e qui non c’è niente di nuovo. Nuova è, come abbiamo detto, la lingua in cui eroi e demoni delle sue saghe si esprimono, nuova è la riscoperta di miti assai scarsamente vulgati a causa della loro sostanziale oralità e dalla conquista romana che ha contribuito a cancellarli, nuova è la sua capacità di esprimere la sua fede cristiana e cattolica, tentando però di cancellarne tutte le tracce esplicite: perché, e aveva ragione, il messaggio dell’arte si deve cogliere non dagli enunciati programmatici, ma dall’indipendenza della storia, dalla sua capacità di emanare significati profondi oltre i proclami e i manifesti teorici. E la Compagnia dell’Anello, Bilbo, Frodo, Sauron, gli Hobbit, Gandalf e tanti altri personaggi segnano l’antico confronto di tutti i racconti antichi, che Tolkien conosceva bene, ma anche la continuazione di quel drammatico scontro, in cui si riversano il Gilgamesh, la Bibbia, il Beowulf, soprattutto il Kalevala, poema epico finnico, l’epopea omerica e tanto altro.
Queste radici non basterebbero a spiegare la paradossale semplice complessità dei miti tolkeniani, perché c’è altro, un duplice altro, profondo e lancinante, che fa di questi “nuovi” miti un’opera anche realista: la mamma dell’autore, quando i Tolkien tornarono in Inghilterra, volle che i suoi figli condividessero con lei la conversione al cattolicesimo, attirandosi le ire dei parenti anglicani e compromettendo la già non florida economia familiare. John ricorderà sempre questo episodio con commozione, vedendo nella mamma una vera e propria martire e un esempio da seguire. Solo l’aiuto spirituale e materiale di un sacerdote, padre Francis Morgan, gli permise la prosecuzione degli studi. Inoltre, lo scrittore era stato inviato, nel 1916, a combattere a fianco dei francesi nella battaglia della Somme, dove conobbe la carneficina, la morte degli amici, la caduta del mito della guerra come combattimento leale uno contro uno.
Questa è l’umile, ma anche apocalittica, realtà che formerà la personalità di un intellettuale nemico delle raffinatezze e delle smancerie, soldato e sognatore, ragazzino povero e però ricco di una fantasia che lo porterà, per restare in tema mitico, a scalare l’Olimpo della cultura mondiale.