Lo sguardo abissale della cultura al femminile. Le donne della poesia, della storia, della narrazione, del pensiero hanno lasciato segni indelebili
Le donne della poesia, della storia, della narrazione, del pensiero hanno lasciato segni indelebili.
Le donne della poesia, della storia, della narrazione, del pensiero hanno lasciato segni indelebili. Donne come Hanna Arendt che hanno smitizzato il superomismo dannato del nazismo come folle fedeltà a Nietzsche e al suo oltre-uomo, documentandolo invece come tragica normalità impiegatizia di uomini che firmavano la condanna a morte di migliaia di ebrei, zingari, omosessuali, oppositori per poi tornare a casa a giocare con i figli come se niente fosse successo. Il suo La banalità del male fu accolto da alcuni come il tentativo di nascondere la bestia: che, in realtà, era celata nella buona famiglia, nel buon padre, nel buon ruolo di una buona società fondata sulla razza e sull’esclusione. Così come Simone Weil, cui non bastava la civetteria intellettuale di molti protagonisti della cultura borghese che inneggiavano alla libertà assoluta e non alla risoluzione dei problemi della fame, della emarginazione e di una raffinatezza esistenzialistica che sarebbe stata messa sul rogo da Hitler e da Stalin. Simone voleva testimoniare con il suo corpo e la sua anima la sua ricerca di Dio tra le macerie e le pallottole che volavano ad altezza d’uomo nella Spagna del colpo di stato franchista e oltre. Donne che ponevano la loro cultura e soprattutto la loro umanità non al servizio della raffinatezza e dell’avanguardia, ma del senso della storia e della difesa degli ultimi contro il seducente mostro della super-bestia.
Ma anche quelle donne che scrissero d’amore perché erano vissute prima della liberazione della bestia hanno lasciato tracce profonde nel conflitto tra psiche, corpo e società, come nell’unico romanzo di Emily Brontë, Cime tempestose, a metà Ottocento. Perché questa non è una semplice storia d’amore e morte, come nel più noto canone romantico, ma il racconto di come il razzismo di classe può scatenare mostri fatti di vendetta per la emarginazione del povero, e una sinistra fascinazione che dura oltre le umane vicissitudini. Lo ha messo bene in evidenza un’altra importante scrittrice d’oggi, Joyce Carol Oates, che ha paragonato la fascinazione violenta di Heathcliff a quella che emana dal Re Lear di Shakespeare, nel quale i conflitti avvengono anche e soprattutto all’interno delle famiglie. Oates ha sondato il sottosuolo dei conflitti e della violenza americani seguendo la strada segnata da un’altra americana, Flannery O’Connor, che, fin dal titolo di uno dei suoi capolavori, Il cielo è dei violenti, ha narrato quel territorio di confine tra spirito, assoluto, caduta, violenza che viene da molto lontano, non solo da Faulkner ma anche dalle Scritture e arriva a Marilynne Robinson, che fa conti abissali con un Dio che torna a disturbare, come nella Leggenda del Grande inquisitore di Dostoevskij, la sonnolenta vita di ognuno.
Elsa Morante è un’altra scrittrice che è riuscita come poche, soprattutto in Menzogna e sortilegio e La storia, a consegnare alla lettura il mistero della vita come sogno, del dubbio della sua insensatezza e delle ombre nascoste nell’esistenza di ognuno. Un po’ come una scrittrice che dovremmo riscoprire, quella Goliarda Sapienza scomparsa nel 1996 che ci ha lasciato nel suo capolavoro postumo, L’arte della gioia, la storia generazionale di povertà, politica, amore, attraverso gli anni cupi del fascismo. Senza però dimenticare Grazia Deledda, unica vincitrice italiana del Nobel per la letteratura nel 1926, capace di fondere nella sua scrittura il fondale apparentemente regionalistico di una Sardegna scenario di antiche lotte tra bene e male, amore e odio, in cui si fondono fatalismo e fede profonda.
Un punto d’incontro fatto di culture e storie diverse, e di Storia grande, è quello delle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar: qui si fondono archeologia, arte, Roma e il mondo di allora, amore, politica in uno sguardo che sembra al passato ma che invece è impregnato di presente. Ma pur sempre un romanzo, non un trattato di storia.