L’anziano, la badante, l’arte dell’incontro. Nel nuovo romanzo di Armando Santarelli viene raccontata la terza età e lo straniero
In questo racconto cadono molti luoghi comuni, a cominciare dalla percezione dell’anziano come peso e come fastidio e della badante straniera come priva di scrupoli, senza nessuna affettività per chi le è stato affidato.
Gli anziani sono stati tra le prime vittime della pandemia, indifesi e talvolta dimenticati da chi deve loro tutto, compresa la vita. Anche se qualcosa si è mosso, tra gli scrittori, ad esempio, che hanno avuto il merito di aver individuato nella sorte dei vecchi una moderna epica, perché fin dai tempi di Omero e di Virgilio, per non parlare delle Scritture, l’anziano è stato il simbolo stesso della famiglia e della vita. Armando Santarelli, dopo aver narrato il rapporto padre-figlia in “Padre per errore” (Robin, 2015) è tornato sull’argomento famiglia con uno sguardo teso all’oggi: nel suo nuovo romanzo “Storia di Mirela” (Rubbettino, 2020) il racconto della terza età si fonde con quello di chi viene chiamato ad accudire gli anziani nelle loro case: stiamo parlando del pianeta badanti, e, nel caso di Santarelli, di una che viene dalla “solita” Romania. Lo scrittore va però in profondità e non ci presenta il consueto quadro con vecchietta, badante distratta e frettolosa e figli troppo occupati per poter pensare pure al come vengono gestiti i genitori non più autonomi. Anzi, lo scrittore fa un uso nuovo delle strategie narrative, perché in questo romanzo, il punto di vista è proprio quello di Mirela, la badante segnata dal dolore perché ha dovuto abbandonare i figli, la casa e un marito violento e pigro per poter sostenere economicamente la famiglia. In questo modo le due solitudini, quella di Teresa, l’anziana signora affetta da Alzheimer e quella della donna costretta a lasciare affetti e terra natìa, si incontrano in un lento capirsi e consolarsi senza tante parole.
In questo racconto cadono molti luoghi comuni, a cominciare dalla percezione dell’anziano come peso e come fastidio e della badante straniera come priva di scrupoli, senza nessuna affettività per chi le è stato affidato. Non ci sono bianchi e neri, non esistono biechi cattivi e angelici buoni, ma nelle strade del piccolo paesetto dell’appennino laziale si snoda quella che è la vita reale: figli dell’anziana presi dalle loro vite ma non assenti dalla cura, una badante che deve fare i conti con il suo essere persona, e quindi con le sue paure, il suo sentirsi estranea e “invisibile”, o peggio colpevole di essere straniera, connazionali, paesani delle più svariate risme, dalla persona colta al contadino o al nipote di Teresa, che si rivela diverso dalle chiacchiere del paese e capace, come Mirela, di intraprendere una nuova strada. Teresa viene colta nelle sfumature profonde del pianeta-anziani, con le sue amnesie e le inevitabili fissazioni (verrebbe da dire che ce le abbiamo tutti, solo che ai vecchi si perdonano di meno), ma anche con la sua capacità di capire in profondità senza tanti paroloni e di accettare, più e meglio di altri, la diversità. Ne esce fuori un racconto polifonico, in cui tramonto della vita, problemi familiari, l’altro – in questo caso lo straniero come rischio di luogo comune – l’amore e il dolore entrano in un contatto armonico e fluido in modo da raccontare una danza, quella della vita, resa più leggera dall’incontro e dall’apertura all’altro.