Alla ricerca del tempo che salva. La “rivoluzione” di Marcel Proust a cento anni dalla sua scomparsa
Il pessimismo della contemplazione della morte e della dimenticanza in Proust lascia spazio alla speranza non solo che la memoria salvi dall’oblio, ma che la vita continui nonostante il destino individuale.
“Ma anche quando non sussiste più nulla d’un antico passato, dopo la morte delle persone, dopo la distruzione delle cose”, scrive Marcel Proust nel primo dei sette volumi che compongono l’opera-mondo “Alla ricerca del tempo perduto”, c’è qualcosa che salva e che consegna all’immortalità il cammino umano: “l’immenso edificio della memoria”. È questo il significato profondo, a cento anni dalla scomparsa del suo autore, di uno dei capolavori del Novecento, che ha dovuto sottostare all’inclemenza dei primi editori, oltre che al rifiuto della lettura di ben sette volumi da parte di chi non reggerebbe neanche a quella di un giornale molto illustrato. Eppure quella Ricerca, nonostante le oltre 3.700 pagine e l’estrema raffinatezza della scrittura che negli anni quaranta-cinquanta del Novecento sarebbe divenuta tutt’altro che un invito alla lettura nel clima neorealista e dell’impegno politico, è da tempo un obbligo, e non solo per le università.
In realtà il pessimismo della contemplazione della morte e della dimenticanza in Proust lascia spazio alla speranza non solo che la memoria salvi dall’oblio, ma che la vita continui nonostante il destino individuale. La stessa crisi profonda che coglie Marcel alla morte della madre, lo stesso isolamento -con la casa tappezzata di sughero per non lasciar passare i rumori- , la medesima laicissima consapevolezza della fine di ogni cosa non bastano a decretare un radicale pessimismo. Che infatti non è la cifra della Ricerca. Perché le persone continuano a vivere in noi e noi continuiamo a vivere negli affetti degli altri.
E che con la loro presenza ci salvano dal non senso:
“A volte, proprio nel momento in cui tutto ci sembra perduto, giunge il messaggio che ci può salvare: abbiamo bussato a porte che davano tutte sul nulla; e nella sola per cui si può entrare, e che avremmo cercata invano cent’anni, urtiamo inavvertitamente, ed essa si apre”
Un oggetto, un piccolo ninnolo da tavolino, un banale quadretto infisso nel muro, improvvisamente ci rivelano l’essenza di un amore che, attraverso la memoria involontaria, oltrepassa i tempi: “liberate per opera nostra, hanno vinto la morte e ritornano a vivere tra noi” (“Dalla parte di Swann”). È la celebre manifestazione degli oggetti che sembrano vivere e farci vivere un’esistenza diversa, molto più profonda e legata misteriosamente agli altri. Qui si sente l’influsso del pensiero di un grande filosofo come Henri Bergson, che tra l’altro si era imparentato con Marcel avendone sposato una cugina. Proust conosceva l’essenza del messaggio di “Materia e memoria” del pensatore che aveva contribuito all’affossamento dell’ideologia materialistica di fine Ottocento: non esiste un tempo quantificabile, uguale per tutti, segmentato in tante graziose lineette, bensì un tempo interiore, che solo la memoria involontaria può cogliere nel suo indicibile mistero. Ben in anticipo su quel principio di Indeterminazione di Heisenberg che sosterrà come l’atto di osservare modifichi la realtà osservata.
Come si vede, Proust rappresenta con il suo monumento alla memoria lo spirito del suo, di tempo, fatto di una nuova scienza, un diverso sguardo sul mondo, una mutata percezione dell’esistenza: tutte dimensioni che riapriranno le porte alla complessità della vita, al rifiuto di vederla come mero meccanismo biologico e all’avvento di un nuovo pensiero che non potrà più ignorare il rapporto tra i nostri sensi e il non visibile, il non calcolabile. Ciò che le grandi interpretazioni del mondo avevano chiamato inconoscibile, assoluto, Verbo.