Usa-Russia: il nuovo contenimento si gioca sui mari
Un bilancio provvisorio sui risvolti della guerra in Ucraina suggerisce un “nuovo contenimento” come chiave interpretativa delle dinamiche in atto.
La politica del contenimento, ispirata in origine dal diplomatico George Kennan, individua l’indirizzo estero lungamente seguito da Washington nell’epoca bipolare. Pur variando in base a contesti, congiunture e dottrine presidenziali, il containment ha costantemente contrastato l’effetto domino di nuove adesioni all’orbita sovietica, articolando opzioni ora preventive ora reattive, su molteplici piani operativi, dall’economico al militare (guerre per procura e interventi diretti inclusi). Negli anni ’80, gli scricchiolii sovietici avrebbero convinto Reagan ad abbandonare l’impianto conservativo e ad alzare la posta, per stremare il nemico nell’affannosa rincorsa a recuperare gli svantaggi sull’Occidente.
Passando a oggi, un bilancio provvisorio sui risvolti della guerra in Ucraina suggerisce un “nuovo contenimento” come chiave interpretativa delle dinamiche in atto. Con una fondamentale differenza. Nel ’900 l’iniziativa Usa godeva di vigore e protagonismo ricavati da risorse proprie, oggi preclusi dall’affaticamento da “sovraestensione imperiale”. Il ritiro dall’Afghanistan e il disimpegno in Medioriente discendono da una parsimoniosa selezione di priorità per cui spendersi. E certamente la dedizione a preservare il dominio sugli oceani sopravanza la gestione dei bacini minori e l’alea degli impegni terrestri.
In relazione agli sfidanti, l’attualità conferma un contenimento senza deleghe delle aspirazioni talassocratiche di Pechino. Rispetto alla Russia, l’atlantizzazione in direzione est è andata assumendo un carattere sempre più ambivalente: quale proiezione egemonica e parimenti come opzione contenitiva nei riguardi delle ambizioni intercontinentali di Mosca. Nello specifico ucraino il containment si sta avvalendo in misura più importante che nel passato di attori interposti: inevitabilmente l’Ucraina sotto attacco, ma anche l’agenzia euroatlantica che, sanzionando e recidendo legami, patisce a dir poco gravi contraccolpi. Eppure, in prospettiva strategica, lo sguardo sugli oceani gode di centralità anche in tale scenario. Al punto da assegnare al conflitto una paradossale connotazione marittima.
Nell’ultimo ventennio, Mosca ha rivelato le proprie aspirazioni potenziando la marina mercantile e rimodernando quella militare. Lo stesso logoramento sul campo ucraino testimonia tale preferenza. Segnatamente, i programmi licenziati dal Cremlino negli scorsi anni collocano al vertice dell’agenda il controllo esclusivo dell’Artico. Per diverse ragioni: grazie al primato delle rompighiaccio russe, esso abbrevia la distanza tra est e ovest; consente l’accesso diretto all’Atlantico e l’emicinturazione del Pacifico nordasiatico; preserva l’intero settentrione russo; promette lo sfruttamento degli idrocarburi e delle terre rare agevolato dallo scioglimento dei ghiacci. Ciò spiega la tendenza di Mosca a disputare con i Paesi scandinavi per la “nazionalizzazione” del polo e la sovranità sulle isole che l’attorniano. Ma la configurazione di Mosca come minaccia esistenziale dell’Europa baltica, certificata dall’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, assegna agli Usa il guadagno di nuovi ostacoli alla proiezioni russo-artiche.
Lo sguardo del Cremlino volge anche a meridione. La conquista della costa ucraina rinnoverebbe la russificazione del Mar Nero, quale porta diretta sul Mediterraneo. Che a sua volta, congiunto al Mar Rosso, connette Atlantico e Indo-Pacifico. La propensione Usa ad allentare il presidio navale su di esso ha aperto spazi alla presenza russa, sostenuta dal ripristino della base già sovietica di Tartus in Siria e dalla possibilità di avvalersi degli scali nordafricani, sudanesi e somali nati dai rapporti infrastrutturali tra Urss e Sud del mondo. Presenza che tanto più oggi Mosca deve intensificare, per garantirsi i flussi con Africa e Medioriente e sfuggire all’isolamento, eludendo al contempo la subalternità al salvagente cinese.
Ma si tratta anche di dislocare a varie latitudini il confronto con l’Occidente, mostrando capacità reattive su diversi teatri. Del resto, se Pechino può concedersi attendismo e passo lento nella sfida agli Usa, Mosca ha bisogno di mostrare capacità di risposta tempestiva ai cordonamenti applicati in suo danno. E il Mediterraneo si presta a tale scopo deterrente anche in virtù dei giacimenti di gas custoditi dai fondali centrorientali, su cui l’Europa conta per svincolarsi dalla fonte russa.
Nel frattempo, gli Usa lasciano che si svolga la competizione tra i Paesi rivieraschi che si contendono le deleghe luogotenenziali sul bacino. A giudicare dalla flotta militare, dall’asse con Israele nella polveriera mediorientale e dall’interesse a chiudere gli accessi russi sin dal Mar Nero, la Turchia sembra un candidato di punta, con buona pace della Francia. Salvo il rischio di acuire la vertenza tra Erdogan e la Ue sul gasdotto EastMed e di aggravare le frizioni tra Ankara e Atene, che trovano Parigi pronta a difendere la seconda in virtù di un trattato di mutuo soccorso. Tutto in un intreccio di equilibri precari su cui Washington, protesa al disimpegno tattico senza tuttavia cedere il timone effettivo, non può permettersi azzardi che destabilizzino le frontiere interne al suo perimetro egemonico.
Giuseppe Casale*
*Pontificia università lateranense