Un profeta metropolitano. I testi di Bob Dylan e le Scritture

La religiosità di Dylan sta proprio nella sua capacità di creare nuove immagini, nel recupero delle radici profonde del senso attraverso il purgatorio metropolitano

Un profeta metropolitano. I testi di Bob Dylan e le Scritture

Il film di James Mangold sui primi passi della straordinaria storia di Bob Dylan è stato accolto, a parte qualche isolata critica, piuttosto bene anche dai super-esperti dylaniani, e d’altronde il regista ha attinto a piene mani da “Dylan goes electric!”, biografia autorizzata di Elija Wald uscita nel 2015. Mangold racconta, attraverso un Timothée Chalamet che accentua un po’ troppo il lato oscuro di Dylan, la storia dell’allora Robert Zimmermann dal 1961 al ’65, anno della contestatissima svolta elettrica. Un Dylan in cui il retaggio biblico si avvertiva profondamente, al di là dei richiami diretti o delle professioni di fede, anche quando si percepiscono i retaggi della canzone di protesta: quella di Pete Seeger, ad esempio, che proveniva, soprattutto nel celebre “Turn turn turn”, direttamente dall’Ecclesiaste, ma anche del suo modello, Woody Guthrie, ambedue giustamente presenti nel film nei momenti cruciali delle talvolta contestate scelte dylaniane.

Tutte influenze che avevano radici lontane, anche nel cosiddetto trascendentalismo di autori fondamentali per la cultura statunitense come Emerson, Thoreau o Whitman.

Comunque la si veda, i riferimenti biblici sono costanti, talvolta anche in chiave ironica (quando si rivolge contro l’ipocrisia di una religiosità solo esteriore e benpensante), anche se non sono letterali: accade in “Lungo le torri di guardia” composta nel 1968, in cui un brivido profetico e apocalittico sembra insinuarsi in quel “un gatto selvaggio ringhiò/ due uomini a cavallo si avvicinavano/ il vento cominciò ad ululare”.

Ma nello stesso disco Dylan racconta di aver “visto in sogno sant’Agostino”, un santo non meglio identificato, nella canzone messo a morte: Dylan accenna alla propria complicità in quell’assassinio, come a confessare l’incapacità di uscire completamente fuori dal pensiero allineato della pazza folla. E Dio, dicono i patrioti di una nazione forte e sana, in una canzone la cui attualità è sotto gli occhi di tutti, non può non essere con noi, perché “non contano i morti quando/ hai Dio dalla tua parte”. Uno dei tanti esempi di come la canzone non si allontani molto dalla profezia, e non è un caso che, più di cinquant’anni dopo, il menestrello prima acustico e poi elettrico sarà insignito del premio letterario più ambito del pianeta, il Nobel.

Il Gesù che condanna l’accumulazione della ricchezza era già emerso nel 1963, quando in “Masters of war,” padroni della guerra, cantava: “il vostro denaro è così potente/da comprarvi il perdono?/ pensate che lo potrebbe?/ io penso che scoprirete/ quando la morte chiederà il suo pedaggio/ che tutti i soldi che avete accumulato/ non serviranno a ricomparvi l’anima”.

Ma è in “Campane della libertà”, e siamo negli anni narrati dal film di Mangold, più precisamente il 1964, che l’indipendenza del genio dalle sue fonti è tale che diviene essa stessa visione di redenzione e di pietas verso gli ultimi. Una visione di incredibile potenza in cui lo sguardo del viandante metropolitano si posa sul ribelle, il miserabile, lo sfortunato, il rifiutato, l’escluso, ma anche su chi non sa difendersi, il mite, il gentile, i poeti e i pittori, “la madre maltrattata senza compagno”, “la prostituta ingiuriata”, “il delinquente da poco”: per tutti i rifiuti apparenti della metropoli senza pietà i notturni passeggeri urbani vedono lampeggiare le campane della libertà.

Il linguaggio dylaniano è in quegli anni tutt’uno con quello religioso in senso lato, dal capro espiatorio ai cancelli dell’Eden, al di fuori dei quali “non ci sono verità”.

La religiosità di questo Dylan sta proprio nella sua capacità di creare nuove immagini, nel recupero delle radici profonde del senso attraverso il purgatorio metropolitano, il sonno sui marciapiedi, lo sguardo sul rifiutato e l’emarginato.

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Fonte: Sir