Un burattino intramontabile. Le ragioni del costante successo del personaggio di Pinocchio
Altro che racconto per bambini, semmai un mito nel senso etimologico di racconto.
Se pensiamo che tanti di noi, tanti anni fa, lo hanno visto prima nel film targato Disney (1940) e solo dopo letto nell’originale di Carlo Lorenzini, che usò lo pseudonimo di Collodi in onore del paese della mamma, ci rendiamo conto della potenza evocativa del cinema, capace di capovolgere il prima (il racconto)-dopo (il film) in un dopo-prima duro a cedere di fronte anche alla realtà.
Per un po’ di tempo non ci abbiamo creduto: era mai possibile che un italiano arrivasse fino al punto di ispirare un film premiato con due Oscar e divenuto pietra miliare nella storia in celluloide? Era possibile, anzi, reale: il ragazzino di legno un po’ birichino che ne combina di tutti i colori prima di “avere il permesso” di diventare bimbo in carne ed ossa, era un prodotto made in Italy, anche se un po’ sdegnato dai critici saputelli che lo ritenevano opera per ragazzini.
Ed invece quell’opera era destinata a diventare faro della letteratura, del teatro, della televisione, del cinema: un successo che dura anche oggi con il Benigni-Geppetto diretto da Matteo Garrone che sta mietendo consensi anche all’estero. Ma a che cosa è dovuto il fascino di un’opera “per ragazzi”? Intanto la sua capacità di emanare significati, alcuni dei quali non presenti consapevolmente nell’autore: ci si possono incontrare Apuleio e il suo asino d’oro, alcune simbologie massoniche, riferimenti alla trasformazione alchemica, può essere letto come simbolo dell’educazione secondo i canoni della laica borghesia di fine Ottocento, o, al contrario, rovesciamento di quei canoni perbenisti e sterili, interpretato come richiamo agli elementi costituitivi (il legno, l’acqua) del cristianesimo, e molto altro.
Segno che l’opera – in questo avevano ragione gli strutturalisti, e Borges, Calvino, Umberto Eco – emana significati autonomi, che vanno oltre le intenzioni del suo creatore. Apparso dapprima sul “Giornale per i bambini” in diverse puntate (già allora tirava aria di serial), “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino” uscì in volume per le edizioni Paggi di Firenze nel 1883. Un libro che aveva dietro di sé la medesima forza che aveva spinto Dickens a denunciare lo sfruttamento e l’esposizione al rischio del male dei suoi piccoli David Copperfield e Oliver Twist, vittime sacrificali di una industrializzazione senza riguardo per età e sesso. Ma possiede anche la sterminata forza del simbolismo arcaico e religioso.
Il burattino Pinocchio è di legno, un legno non pregiato, il che richiama alla pietra scartata che diviene testata d’angolo del Vangelo, e anche al fatto che il greco “yle” non era solo il legno, ma la materia originaria, la grande Madre di tutti, uomini, animali e cose. Non solo: il fatto che al termine della prima avventura del 1881 Pinocchio finisse impiccato ad un albero dal Gatto e la Volpe e poi tornato in vita grazie alla Fata dai capelli turchini, ci fa pensare alla simbologia del sacrificio della vittima innocente, al legno della croce, e poi alla resurrezione. E di fatto Collodi dovette “resuscitare” il suo personaggio a causa delle proteste dei piccoli lettori. E non è un caso che Geppetto sia stato da più parti associato alla figura di un altro falegname, il padre putativo dell’agnello sacrificale, Giuseppe (si noti l’assonanza dei nomi).
Ma c’è anche l’ipotesi, che non esclude le altre, che il cammino del burattino rappresenti la necessità della piccola morte, dell’elaborazione del lutto materno, del faccia a faccia con la dura necessità dell’esistere. E non c’è chi non abbia visto nell’ingresso nel Paese dei balocchi della seconda parte il rischio della regressione nel mondo dell’infanzia, un tentativo di ritorno nel grembo materno che rivelerà tutta la sua pericolosità nel reale inghiottimento dentro la pancia del pesce-cane, nel cartone di Disney divenuto una balena in omaggio al mito di Moby Dick. Come si vede, altro che racconto per bambini, semmai un mito nel senso etimologico di racconto. Che ancora oggi insegna molte cose, anche e soprattutto ai “grandi”.