Tornare alla fede. Non eventi, ma percorsi
La Chiesa ha sempre avuto la capacità di rigenerarsi grazie alle crisi più sconvolgenti: auspichiamo che la progressiva (e rapida) estinzione delle prassi di mero mantenimento nelle nostre comunità ci induca a tornare all’essenziale, cioè a rimetterci a camminare, proponendo e cercando percorsi di fede che formino, riconnettendo il vissuto delle persone al Mistero. Saremo di meno, ma i “di più” degli ultimi decenni si sono rivelati un mero errore percettivo, che la durezza del reale sta finalmente facendo svanire in favore di possibilità ancora tutte da esplorare sotto la guida dello Spirito
Qualche anno fa ero a una cena con alcuni amici sacerdoti; quasi nessuno di noi era ancora parroco. Uno di loro, particolarmente giovane e di buona volontà, iniziò a elencare le cose che proponeva ai giovani nella sua parrocchia: l’estate scorsa il cammino di Santiago, poi la preparazione alla Gmg e a seguire la Gmg stessa, poi una bellissima esperienza in Africa, poi… Al che gli chiesi a bruciapelo: “Ma tu hai un progetto formativo per i giovani che ti sono affidati? Cioè, hai degli obiettivi a cui vuoi condurli attraverso quello che gli proponi?” Lui mi fissò con uno sguardo prima vitreo, poi leggermente ostile: “Cioè??? Che c’entra, io provo varie cose.” “Appunto,” risposi.
Questo scambio, che in realtà in forme diverse si è ripetuto amaramente varie volte nella mia esperienza di prete, mi è rivenuto subito alla mente quando ho letto l’intervista a Luca Diotallevi, autore del recentissimo studio sui dati Istat circa la religiosità in Italia intitolato “La Messa è sbiadita. La partecipazione ai riti religiosi in Italia dal 1993 al 2019”. Qualcuno grida in modo intelligente che il re è nudo, ma quanti saranno i pastori a raccogliere questo grido per rivedere globalmente l’approccio pastorale rivolto alle nuove generazioni, cioè al futuro della Chiesa?
Ci sono due problemi connessi tra loro: primo, non si dà vita ecclesiale autentica senza vita liturgica, ma, (ed è il secondo problema) da quanto emerge dai dati raccolti e interpretati, la vita liturgica sembra essere sempre meno significativa nell’esperienza spirituale personale. La liturgia (le Messe, i matrimoni, i funerali, ecc.) è tutt’al più vista come l’occasionale coreografia che fa da cornice a una situazione della vita, e non come un luogo/evento che trasforma la sostanza stessa della realtà personale e comunitaria.
Il motivo è evidente: da almeno cinquant’anni stiamo affannosamente cercando di conservare, di mantenere una forma di Chiesa di massa, investendo tutto sull’attrattiva di occasioni puntuali, così da poterci continuare a interpretare come “società cristiana”, come “maggioranza”. Ci siamo fin troppo gongolati di masse di gente agli eventi, e non ci siamo forse chiesti abbastanza cosa sarebbe successo dopo…
“Se guardiamo alla partecipazione alla messa, dove sono finiti i due milioni di ragazzi presenti a Tor Vergata per il Giubileo del 2000?” Si chiede molto opportunamente Diotallevi nell’intervista: “Una cosa è assistere a un concerto per ascoltare il nostro cantante preferito, altra cosa è imparare a suonare. E per imparare a suonare non devi andare solo al concerto, ma al conservatorio. Dove si studia con fatica dieci anni e non basta pagare il biglietto”.
Ma non buttiamo sulle spalle dei fedeli tutte le responsabilità: una pastorale, anzi, una visione della vita dello Spirito intesa come una costellazione di eventi e di esperienze esclude il coinvolgimento profondo della soggettività, che per definizione può comprendersi e autointerpretarsi solo nella continuità del quotidiano; servono percorsi, non eventi, perché anche l’evento più significativo, se non è interpretato, metabolizzato, in un processo e in una formazione graduali come graduale è la coscienza della persona, rimane come semplice foto nella memoria (del cervello o, peggio, del cellulare), e la persona non può servirsene per crescere.
Occorre offrire alla persona strumenti per interpretare (cioè appropriarsi di) quello che le succede, e per dare strumenti occorre formare, e per formare occorre accompagnare in un cammino, graduale ed estremamente personale: “Nell’azione pastorale con i giovani, dove occorre avviare processi più che occupare spazi, scopriamo innanzi tutto l’importanza del servizio alla crescita umana di ciascuno e degli strumenti pedagogici e formativi che possono sostenerla. Tra evangelizzazione ed educazione si rintraccia un fecondo legame genetico, che, nella realtà contemporanea, deve tenere conto della gradualità dei cammini di maturazione della libertà. Rispetto al passato, dobbiamo abituarci a percorsi di avvicinamento alla fede sempre meno standardizzati e più attenti alle caratteristiche personali di ciascuno”, asseriva Papa Francesco nel documento preparatorio per il Sinodo dei Vescovi su “I giovani, la fede e il discernimento”, e non è un caso che una delle parole più ricorrenti nell’esortazione post-sinodale Christus vivit sia proprio “percorso”, perché la giovinezza ci ricorda che è la vita stessa a essere un percorso, cioè una crescita.
La vita è un percorso, un processo, e la vita spirituale (che è la quintessenza della vita) è un’iniziazione, cioè un percorso: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14, 6). “Via” e “vita” sono concetti dinamici, ma in greco lo è anche “verità”, “aletheia”, termine che implica un graduale disvelamento di ciò che è nascosto; essere cristiani in origine significava essere quelli “della Via”, cioè gente in cammino, e questo cammino non era occasionale, ma era quello della vita quotidiana e concreta di ogni giorno, illuminata e svelata nel suo misterico nesso alla Pasqua di Cristo dalla liturgia.
Se salta il processo, il percorso, l’umile regolarità di una formazione continua e dosata sulle situazioni della vita, si può diventare spettatori, degustatori, esperti di situazioni e momenti religiosi/spirituali/liturgici, ma non se ne potrà mai venire trasformati.
La recente pandemia, facendo saltare approcci e situazioni abituali, ha stanato con il lockdown l’incapacità di moltissimi sedicenti credenti di ritrovare dentro di sé una vitalità spirituale che non passasse per i riti esterni in quel frangente impossibilitati, e chi ha avuto occhi per vedere si sarà accorto che alla pericolosa equazione “Vita di fede = Messa” ne era sottesa una ben peggiore “Niente Messa = niente vita di fede”. Queste considerazioni non sono contraddittorie con le precedenti: ridurre la mia vita di fede al momento liturgico significa non avere una vita di fede, ma solo momenti di fede, parentesi auree in un continuum di grigia ferialità scandita dalle impellenti leggi della natura e della cultura, e se questi momenti di fede dovessero finire… pazienza, la vita andrebbe avanti lo stesso, in tutto il suo non-senso – ed ecco il crollo della partecipazione alla Messa dopo la fine del lockdown, quando tanti hanno capito che potevano vivere benissimo anche senza quei “momenti”.
La Chiesa ha sempre avuto la capacità di rigenerarsi grazie alle crisi più sconvolgenti: auspichiamo che la progressiva (e rapida) estinzione delle prassi di mero mantenimento nelle nostre comunità ci induca a tornare all’essenziale, cioè a rimetterci a camminare, proponendo e cercando percorsi di fede che formino, riconnettendo il vissuto delle persone al Mistero. Saremo di meno, ma i “di più” degli ultimi decenni si sono rivelati un mero errore percettivo, che la durezza del reale sta finalmente facendo svanire in favore di possibilità ancora tutte da esplorare sotto la guida dello Spirito.
Alessandro Di Medio