Sono solo canzonette? Quando le canzoni diventano l’anticamera della letteratura
L’ascolto di “canzonette”, se ben guidato, anche oggi permetterebbe un lento passaggio dal disimpegno a una più positiva riflessione sull’oggi.
Sono solo canzonette, cantava Edoardo Bennato all’inizio degli Ottanta. Quelle canzonette erano però la strada che portava dritta a Peter Pan, con tutti i richiami mitici – e psicoanalitici – del caso.
Le canzonette ci hanno permesso l’ingresso nella profondità e nella sua bellezza: ci hanno, in poche parole, insegnato a leggere nei libri e attraverso i libri. E, si guardi bene, non stiamo parlando solo di veri e propri poeti come Leonard Cohen, Jacques Brel, Bob Dylan, che non a caso è un Nobel per la letteratura: qui si tratta proprio di canzoni. D’altronde Pasolini, la Morante (“Ai giochi addio” di Giulietta e Romeo), Prevert hanno scritto, senza vergognarsene, testi di “canzonette”.
Mogol-Battisti non sono un’eccezione con la loro capacità di parlare al profondo della gente. Eppure hanno venduto milioni di dischi, e hanno avvicinato alla poesia. Ma, lo dicevamo prima, non si tratta solo di “Emozioni”, o di “Prigioniero del mondo” (la cui musica non è di Battisti, ma di Donida), di “Giardini di marzo”, testi stupendi che abbiamo cantato per anni e anni.
Vi sorprenderà sapere che “E mia madre”, con le parole profonde e toccanti di Carla Vistarini, che è una scrittrice, era sì cantata da Tony Cicco, batterista e voce di un gruppo storico “battistiano” come la Formula 3, ma, anche da Raffaella Carrà, che non passava certo per una cantante impegnata; eppure quella canzone esprimeva la dimensione più dolorosa del legame con una madre, compreso il momento dell’addio: “E mi permise di restarle a fianco/ fino a quando niente restò di lei”. E come non parlare di cose vendittiane come “Il treno delle sette” (struggente confessione di inadeguatezza di una madre operaia), “L’ingresso della fabbrica” e “Ora che sono pioggia” (“ma ora che sono pioggia/e come il mare vado via,/ quella cosa che resta/ la vedo: è solo amore”) che rappresentano una riflessione seria sul lavoro e sulla morte, rimaste purtroppo in ombra?
Senza dimenticare Lucio Dalla, soprattutto quello che cantava le parole di un autentico poeta come Roberto Roversi. “Tu parlavi una lingua meravigliosa” potrebbe sostenere qualsiasi confronto con la lirica contemporanea. Ovviamente De Gregori è dentro questo discorso, con alcuni tra i più bei testi della nostra canzone, come quei Due zingari che “appoggiati alla notte” “si tenevano negli occhi”, mentre i camionisti che passano accanto al campo “si lasciano dietro un sogno metropolitano”.
Ma anche Ivano Fossati non scherza, così come il professor Vecchioni. Di cose così ce ne sono, grazie a Dio, molte: da “E sei di nuovo solo” di Renzo Zenobi a un capolavoro di opera rock – a livello internazionale – come “Orfeo 9” di Tito Schipa jr, De Andrè, Tenco, Branduardi, Gaber, Kuzminac, solo per rimanere da noi. E molti testi poetici erano canzonette, – nell’immaginario dei colti puri e duri -, interpretate da Dik Dik, Pooh, Patty Pravo, New Trolls, Mia Martini, solo per fare pochi nomi. L’ascolto di “canzonette”, se ben guidato, anche oggi permetterebbe un lento passaggio dal disimpegno – e, peggio, dalla fascinazione di una “bellezza” fatta di velocità e di violenza -, a una più positiva riflessione sull’oggi. Non è nostalgia, ma anzi la consapevolezza che anche dal mondo della “canzonetta” possa partire la grande avventura della ricerca di senso.