Quaresima… in quarantena. Cosa significa essere “religioso” ai tempi del Coronavirus?
“Are you religious?” chiede ai suoi “amici” il Museo Van Gogh di Amsterdam, nel post che accompagna il quadro “Comunità che lascia la chiesa riformata a Nuenen”
“Sei religioso?” Bella domanda. Soprattutto se a fartela sulla bacheca Facebook, il pomeriggio del mercoledì delle ceneri (26 febbraio), in piena “emergenza coronavirus”, non è un prete, un frate o una suora, ma un museo.
“Are you religious?” chiede ai suoi “amici” il Museo Van Gogh di Amsterdam, nel post che accompagna il quadro “Comunità che lascia la chiesa riformata a Nuenen” (1884-1885).
Il padre di Vincent van Gogh, il celebre pittore olandese nato il 30 marzo 1853 a Zundert, era un pastore protestante. Fino ai 27 anni, la fede cristiana ha avuto un ruolo importante nella vita del giovane van Gogh. Andare in chiesa, pregare e meditare le Sacre Scritture – si legge nel post – hanno scandito gli anni dell’infanzia del pittore. Non solo. Vincent, per un certo periodo, ebbe anche l’idea di seguire le orme paterne, ma abbandonò gli studi di teologia prima ancora di frequentare una lezione. Col passare degli anni andò via via allontanandosi dalla Chiesa e dalla fede cristiana. Ma non si spense mai in lui il desiderio della “religione”, come racconta lui stesso in una lettera scritta nel 1888 al fratello Theo: “Questo non mi impedisce di avere un grandissimo bisogno di, devo dire la parola – di religione – così esco di notte per dipingere le stelle, e sogno sempre un quadro come quello, con un gruppo di vivaci figure di amici”. La lettera si chiude con lo schizzo a penna di “Notte stellata sul Rodano”, quadro che van Gogh realizzò ad Arles nel settembre 1888 e che oggi è custodito al Museo d’Orsay di Parigi. Un tema, quello della “Notte stellata” che tornerà l’anno successivo, nella celebre tela conservata oggi al MoMa di New York. Quelli furono anni assai travagliati per van Gogh. Tuttavia, in mezzo alle confusioni della vita, ha sempre sentito forte il desiderio di uscire di notte, levare lo sguardo in alto e fissare nei suoi occhi e sulla sua tela il cielo stellato, l’unico luogo capace di donargli quella pace e quella serenità che tanto cercava.
“Sei religioso?” Come risponderemmo oggi a questa domanda? Cosa significa essere “religioso” ai tempi del coronavirus, di fronte al quale tutti – chi più e chi meno – ci sentiamo improvvisamente smarriti?
Per settimane abbiamo seguito da lontano questo virus finora sconosciuto, come spettatori di uno dei tanti film apocalittici ricchi di effetti speciali e di colpi di scena. Poi, quando è arrivato nel nostro quotidiano, allora le cose sono cambiate. Così come i ritmi e le abitudini delle nostre giornate. Tutti quelli che prima erano ritenuti problemi insormontabili, per i quali ci si è accapigliati per mesi e settimane, sembrano essere stati azzerati in uno schiocco di dita. E sono nate ansia, paura e insicurezza. Siamo improvvisamente finiti in un frullatore che gira al ritmo del numero dei contagi. Frastornati e confusi, confondiamo la prudenza con la paura e alla fine a vincere è spesso la seconda.
Per prudenza ci vengono temporaneamente poste delle limitazioni, e di colpo ci sentiamo spogliati di tutto e andiamo a caccia di mascherine e disinfettanti per coprire le nostre fragilità.
Chi la mattina era solito sbuffare perché doveva andare a lavorare, oggi sarebbe disposto a tutto pur di tornare sul posto di lavoro. Perché quella era la sua “normalità”.
La decisione assunta in alcune diocesi italiane di sospendere in via cautelativa le celebrazioni eucaristiche ha gettato nello sconforto anche chi solitamente in chiesa non ci entra mai, se non ai funerali e nelle feste comandate.
“Questo non mi impedisce di avere un grandissimo bisogno di religione”, scriveva van Gogh al fratello.
In questa Quaresima in cui, volenti o nolenti, stiamo sperimentando tutti (chi più e chi meno) cosa significa rinunciare veramente a qualcosa, forse potremmo illuminare le nostre “quarantene” con la luce delle stelle. Come ha fatto van Gogh.