Pensioni: la solita giungla. Più che questione previdenziale, si deve iniziare a parlare di questione demografica
La questione vera sta diventando un’altra: non tanto “quando andrò in pensione”, quanto “quale sarà la mia pensione”
Si parla sempre di giungla, quando si affronta il tema pensioni. Per il semplice fatto che la questione previdenziale è una vera e propria selva di normative, di eccezioni, di regimi speciali, di distinguo e soprattutto di modifiche che ultimamente non hanno vita più lunga di un anno. Perché si scontrano due concetti opposti: da una parte la voglia di moltissimi lavoratori di andare appunto in pensione, soprattutto dopo diversi decenni di lavoro; dall’altra la situazione della previdenza pubblica italiana, stretta dalla morsa delle pensioni da erogare ogni mese e dalle proiezioni future.
Già, lo ha spiegato recentemente a chiare lettere il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti: più che questione previdenziale, si deve iniziare a parlare di questione demografica. Se nascono sempre meno figli e la popolazione italiana aumenta le sue aspettative di vita (insomma vive in media più a lungo), chi pagherà le pensioni del futuro? E chi pagherà poi quelle dei nostri attuali giovani?
Quindi ci sarebbero pressioni politiche per arrivare ad esempio ad una quota massima di anni lavorativi pari a 41 per tutti; ma questo ad esempio ridurrebbe le attuali soglie di pensione di vecchiaia comportando un aumento della spesa previdenziale. E in questi ultimi anni – dopo il grande allargamento delle maglie deciso dal governo gialloverde tra il 2019 e il 2020 – si è continuato a stringerle: opzione donna ad esempio ha innalzato le soglie per accedervi e rimane assai penalizzante per chi aderisce (il taglio dell’assegno mensile è veramente corposo). Così come continua, leggina dopo leggina, ad espandersi il calcolo contributivo: avrai solo ciò che hai versato. Giusto, se non fosse che milioni di italiani per decenni hanno ricevuto ben oltre quanto avevano versato.
La questione vera quindi sta diventando un’altra: non tanto “quando andrò in pensione”, quanto “quale sarà la mia pensione”. Perché già ora, nel migliore dei casi (lunghe permanenze lavorative senza buchi contributivi, costanza e crescita dei contributi versati), i calcoli pensionistici raccontano della decurtazione di almeno un quarto di quanto percepito prima del pensionamento. Ma basta veramente poco – soprattutto in caso di anticipi pensionistici – per scivolare a poco più della metà: basta per campare?
Per carità di patria non parliamo dei trentenni d’oggi, che dovranno sicuramente lavorare oltre i 70 anni d’età e riceveranno assegni pensionistici… se li riceveranno. Per tenere su l’attuale sistema, pur limandolo in peggio in modo poco avvertibile dall’opinione pubblica (meno rivalutazione Istat, qualche mese in più prima di riceverla, ecc.), serviranno a fine anno diversi miliardi di euro in bilancio. Lo sa Giorgetti, ha già messo le mani avanti (“Gli interventi devono essere sostenibili”), aspettiamoci a fine anno un’insalata di regole in cui qualche appariscente foglia dolce nasconda molte piccole foglie amare.
Tutto ciò non vale per i professionisti con proprie casse previdenziali né per la previdenza integrativa che non è altro che una forma d’investimento agevolata dalla fiscalità generale. E prima o poi un governo sarà costretto ad affrontare la questione “assegno sociale”, quei 530 euro per 13 mesi versati a chi, dopo i 67 anni e in particolari condizioni di reddito, non ha mai lavorato o comunque versato sufficienti contributi per poter godere di una pensione. È una misura assistenziale (la ricevono più del 20% dei pensionati attuali) alimentata con i contributi previdenziali: così com’è strutturata, non regge più.