La lettera. Casa Santa Chiara non ci accompagnerà più
Ha chiuso dal 1° ottobre Casa Santa Chiara, qui, nella nostra città. È ufficiale. Ha chiuso un pezzo della mia vita, della nostra, di molti di noi che hanno avuto la fortuna di incontrarla sul proprio cammino.
Per tanti potrebbe definirsi una sfortuna: d’altronde si trattava pur sempre, almeno sulla carta, di un hospice per malati terminali convenzionato con il Ssn, considerato dai più, notoriamente, come luogo di sofferenza e angoscia; comprendo che non è facile aprire gli occhi sul dolore, e sulla consapevolezza che possa far parte della propria vita. È meglio nasconderlo sotto il tappeto; anche se prima o poi ci farà inciampare. Potremmo sempre dare la colpa al pavimento, a quel punto. Nel silenzio del Comune, della Regione e di una città frastornata dal chiasso del quotidiano, dalle elezioni politiche, dalla chimera di una ricerca della prestazione a ogni costo, della performance migliore e del primato, dell’eccellenza; mentre tutti – includo anche me stessa ovviamente - eravamo troppo presi dalle contingenze per rendersi conto di ciò che stava accadendo, il portone di Casa Santa Chiara chiudeva.
Cancelli chiusi definitivamente dal 1° ottobre, ultimi pazienti già “sistemati” in strutture alternative, personale alla diaspora presso altri Enti, pubblici e privati. Problema archiviato. Le cause, le solite. Rette ferme da dieci anni, spese costantemente in aumento, personale sempre più difficile da reperire per coprire i turni di quel gruppo meraviglioso di persone che ogni tanto aveva bisogno anche di un po’ di riposo. L’Istituto delle suore Elisabettiane impossibilitato a farvi fronte da solo. Nessun aiuto da quegli enti che avrebbero dovuto darlo, pur preavvisati della situazione.
L’ultimo giorno sono passata a salutare gli ultimi custodi di una struttura con le persiane abbassate, già avvolta in un silenzio assordante e per me irriconoscibile: perdonatemi, faccio i vostri nomi perché siete speciali, so che siete schivi, ma lo meritate. Anna, la direttrice dispensatrice di sorrisi e carezze ai pazienti e ai familiari, Stefano, il coordinatore infermieristico che con fermezza, precisione e gentilezza assisteva tutti i giorni i malati e rifaceva i conti ogni mese in un pallottoliere dove tornavano sempre meno e suor Lia, il cuore di tutti, la forza per tutti, la presenza fatta persona.
Avevano tutti gli occhi lucidi. Pubblico, per me, significa servizio per la comunità; significa non lasciare indietro le famiglie, e soprattutto le persone sole, sino all’ultimo giorno della loro esistenza su questa terra, e nel momento più difficile della loro vita. E ora, con la chiusura di Santa Chiara, una città come Padova e l’intera provincia si ritrovano con 11 posti letto in meno. Con meno calore, meno affetto, meno sorrisi, meno carezze, meno abbracci, meno lacrime raccolte. Una famiglia in meno. No, la rabbia non è la loro; ma è la mia. E dovrebbe essere la nostra, di noi tutti. Perché l’unica cosa certa, alla fine, è che tutti incroceremo la morte nella nostra vita. L’unica cosa che può fare la differenza è come. E non mi riferisco al dolore o alla malattia, ma alla solitudine. In Casa Santa Chiara nessun malato, anche se solo, l’ha mai provata: perché ha trovato una famiglia; un’altra, o quella che non ha mai avuto.
Nessun familiare, o amico, è mai stato abbandonato al suo dolore, anche quando nascondeva le lacrime in un corridoio e le asciugava velocemente con la manica della giacca prima di entrare nella stanza vestito del miglior sorriso che riusciva a trovare. Tutti si sono sempre sentiti accettati, e amati, anche con la loro rabbia, la loro tristezza, la loro frustrazione, la loro angoscia e la loro paura. Perché lì dentro, le emozioni – soprattutto quelle negative – e la morte, hanno sempre avuto una dignità, come la vita stessa.
Recentemente, suor Lia ha piantato nel giardino della Casa il tiglio che avevo portato due mesi fa, a ricordo di mamma, assistita da tutti loro amorevolmente gli ultimi due mesi della sua vita, dopo una lunga malattia che, in aprile, me l’ha strappata via a 59 anni. Se penso ai suoi ultimi giorni, voglio solo ricordare la sua mano che cercava il volto dell’infermiera Cinzia per una carezza, ogni volta che entrava nella stanza, e a tutte quelle che dispensavano tutte le altre infermiere, le Oss e l’instancabile suor Lia. Penso anche alle eccezioni alla regola che mi facevano restare accanto al suo letto sino a tardi, al non guardare mai con eccessiva puntigliosità l’orario di visita, o la musica troppo alta a orari improbabili. Al loro aiuto nell’appiccicare le foto della nostra vita insieme per tutta la stanza,
o alla loro cura delle piantine di fiori disseminate dappertutto per colorare lo sguardo di mamma. Alle loro mani sulle spalle, e agli abbracci degli ultimi giorni, alla forza che mi trasmettevano le loro parole di sostegno. Quel tiglio – l’albero preferito di mamma – fiorirà ancora in primavera in quel giardino pieno di rose, giacinti, viole e margherite; spero tanto che, in qualche modo, nello stesso periodo, qualcuno riuscirà ancora a far riecheggiare, fra le mura dello stesso giardino, le deboli risate dei malati. Che saranno pure flebilissime, ma vi assicuro che per un familiare possono contenere vibrazioni da soprano. Vorrei tanto che questa storia avesse un finale diverso, questa volta. Vorrei tanto che qualcuno aiutasse a scriverlo.
Valentina Rocca - Padova