L’agricoltura e il suo tsunami. La filiera agroalimentare è alle prese con una situazione complessa, con problemi che arrivano da lontano
Alla base di tutto sono i rincari per gli acquisti di concimi, imballaggi, gasolio, attrezzi e macchinari.
Molte aziende agricole rischiano di chiudere. Alcune lo stanno già facendo, altre lavorano da tempo in perdita. E non si tratta solamente dei risultati di una guerra inaspettata per i più, oppure dell’eredità di una pandemia che ha graffiato a fondo le imprese.
A mettere in fila i numeri che fotografano la situazione ci ha pensato Coldiretti. “Più di 1 azienda agricola su 10 (11%) – ha spiegato l’organizzazione agricola in una nota -, è in una situazione così critica da portare alla cessazione dell’attività ma ben circa 1/3 del totale nazionale (30%) si trova comunque costretta in questo momento a lavorare in una condizione di reddito negativo per effetto dell’aumento dei costi”. Le cause contingenti sono quelle alla ribalta delle cronache. Di “tsunami” parlano i coltivatori. E hanno ragione. Alla base di tutto sono i rincari per gli acquisti di concimi, imballaggi, gasolio, attrezzi e macchinari. Basta sapere (sono sempre calcoli Coldiretti), che mediamente nelle campagne si registrano aumenti dei costi che vanno dal +170% dei concimi al +90% dei mangimi al +129% per il gasolio con incrementi dei costi correnti di oltre 15.700 euro in media ma con punte oltre 47mila euro per le stalle da latte e picchi fino a 99mila euro per gli allevamenti di polli.
E ad essere più tartassate sono le produzioni di base come quelle cerealicole oppure zootecniche. Ma non solo. Per la filiera vitivinicola italiana, dice uno studio di Censis- Alleanza Cooperative Agroalimentari, gli extracosti sono arrivati ad oltre 1,1 miliardi di euro. Anche il sistema della cooperazione, quindi, parla di una “tempesta dei prezzi che intaccherà la redditività delle imprese e rischia di comprometterne anche la capacità competitiva sui mercati internazionali”.
Tutto questo però indica anche dell’altro. Il sistema agroalimentare italiano soffre ancora di una fragilità importante dal punto di vista delle potenzialità produttive. Carenze infrastrutturali, una latente conflittualità di sistema, risorse insufficienti da dedicare alla ricerca e all’innovazione (che pur esistono lungo la filiera), hanno posto tutto il comparto in una oggettiva condizione di svantaggio competitivo. Una situazione dimostrata ancora una volta dalle statistiche. Così, l’incremento dei costi – come insistono i coltivatori diretti – rischia davvero di aumentare la dipendenza dall’estero per gli approvvigionamenti agroalimentari con l’Italia che è già obbligata ad importare il 64% del grano per il pane, il 44% di quello necessario per la pasta, ma anche il 16% del latte consumato, il 49% della carne bovina e il 38% di quella di maiale, senza dimenticare che con i raccolti nazionali di mais e soia, fondamentali per l’alimentazione degli animali, si copre rispettivamente appena il 53% e il 27% del fabbisogno italiano secondo l’analisi del Centro Studi Divulga. Ma perché tutto questo? Alcune delle cause sono già state accennate, ad esse Coldiretti aggiunge “i bassi compensi riconosciuti agli agricoltori che sono stati costretti a ridurre di quasi 1/3 la produzione nazionale di mais negli ultimi 10 anni durante i quali è scomparso anche un campo di grano su cinque con la perdita di quasi mezzo milione di ettari coltivati”. Miopia delle industrie, dicono i coltivatori. Struttura dei costi e dei mercati, dicono le industrie.
Fatto è, comunque, che la situazione di grande fragilità della filiera agroalimentare, che pure ha saputo essere così forte negli ultimi due anni, ha cause complesse e non certo limitate a quanto sta accadendo oggi. Ci sono comunque gli strumenti e le soluzioni per cambiare in meglio. E’ necessario però essere convinti della possibilità di farlo.