Il nodo Pnrr. Ecco perché non ha senso spendere i soldi in progetti non utili
Si tratta di soldi che dovremmo comunque restituire, che vantaggio abbiamo a spenderli per progetti che non ci sono utili pur di mantenere l’impegno?
Le difficoltà nel rispettare le scadenze del Piano nazionale di ripresa e resilienza hanno fatto riemergere l’ipotesi di rinunciare a una parte dei finanziamenti del Recovery plan, che gli eurocritici avevano avanzato già nella primissima fase dell’operazione. L’ipotesi – che ovviamente riguarda la quota dei prestiti, non quella delle somme erogate a fondo perduto – ha agitato le acque della coalizione di governo: prospettata da autorevoli esponenti della Lega è stata immediatamente respinta dalla premier che ha dichiarato di non volere neanche prendere in considerazione l’idea di perdere delle risorse. E’ arduo darle torto. Non perché l’ipotesi leghista sia in sé bislacca. Qualcosa di simile hanno sostenuto economisti di tutt’altra matrice culturale. Il ragionamento ridotto all’osso è il seguente: si tratta di soldi che dovremmo comunque restituire, che vantaggio abbiamo a spenderli per progetti che non ci sono utili pur di mantenere l’impegno?
Una tesi che teoricamente può apparire ragionevole ma che non considera l’impatto che la rinuncia italiana avrebbe sia rispetto all’affidabilità internazionale del nostro Paese, sia rispetto alla possibilità futura di altre iniziative europee di debito comune, tenuto anche conto che sono in corso le trattative per rivedere il patto di stabilità, di cui conosciamo bene le potenziali ripercussioni soprattutto per un paese con un alto deficit come il nostro. E poi sarebbe veramente paradossale se, dopo aver lamentato per anni l’impossibilità di pensare in grande a causa dei vincoli europei, non riuscissimo a utilizzare in modo proficuo una mole di denaro mai vista prima: considerando oltre al Pnrr anche il piano complementare italiano e le altre forme strutturali di finanziamento europeo si arriva a circa 300 miliardi di euro di qui al 2029.
Ben vengano dei correttivi mirati e concordati con la Ue, valutando le mutate condizioni globali in confronto al periodo in cui il Pnrr è stato concepito. Ma il nostro Paese non ha alternative credibili: deve affrontare e vincere questa sfida cruciale per il suo futuro. Per farlo ha bisogno di tutte le sue energie. Dalle opposizioni sono giunti segnali di apertura che il governo non dovrebbe lasciar cadere. Certo, è necessario creare le condizioni politiche perché un dialogo si possa sviluppare, senza confusione di ruoli e senza manovre strumentali da una parte e dell’altra. Devono anche essere evitate le sbandate ideologiche che impediscono la costruzione di un clima appropriato. In questo senso l’approssimarsi della Festa della Liberazione può diventare un’occasione positiva di convergenza sul valore costituzionale dell’antifascismo o, viceversa, motivo di ulteriore polarizzazione.
Al di là degli equilibri parlamentari, nel Paese ci sono giacimenti di competenze e di esperienze a cui sarebbe autolesionistico non attingere. Come non pensare, per esempio, al Terzo Settore? Sono oltre 37 miliardi i finanziamenti del Pnrr che potenzialmente possono vedere coinvolta questa fondamentale risorsa nazionale, non solo come “esecutore intermittente” sul territorio ma anche nella fase della progettazione dei bandi a livello centrale.