I preti? Sempre di corsa. Fermarsi per vivere
Se un parroco mi dicesse che viola spesso il settimo comandamento – non rubare – penserei che ha bisogno di cure. Perché non vale lo stesso anche per il terzo?
Quando ero studente a Roma, alloggiavo presso il Seminario Lombardo. Qui, ogni tanto, passava il card. Carlo Maria Martini, già vescovo emerito di Milano. In una di queste visite, noi giovani preti stavamo discutendo della notizia di un noto professore di teologia che aveva lasciato l’insegnamento e il ministero per vivere insieme alla sua segretaria. Qualcuno di noi, maliziosamente, chiese al cardinale cosa ne pensasse. Martini, come era suo solito, si prese un po’ di tempo prima di rispondere. Questa pausa era significativa. Per lui non c’era nulla di goliardico o di ironico nella domanda. Già questa pausa, questo fermarsi alla soglia della nostra curiosità, era più di una risposta per noi giovani preti insolenti; ma non si fermò lì. «Da vescovo di Milano – rispose – all’inizio di un nuovo anno, chiedevo al mio segretario di prendere l’agenda e di segnare come impegnati tutti i giovedì. In questi giorni mi fermavo e, nella bella stagione, andavamo a camminare in montagna. Questi momenti mi servivano per mettere in ordine i tanti pensieri, trovare le giuste intuizioni, distendere l’animo, alleggerire le tante preoccupazioni che si depositano nel cuore. Queste pause erano degli atti creativi per la mia vita. Portavano a compimento la settimana, come la creazione all’inizio della Genesi che raggiunge la sua pienezza nel riposo di Dio nel settimo giorno». Martini, da fine biblista, non interpretava il riposo come un semplice tempo in cui recuperare le forze, ma come un atto generativo. Il riposo ci permette di creare, di generare, di dare vita. Eppure, quanta fatica facciamo a fermarci. Per noi preti, poi, è diventato quasi impossibile. La risposta del cardinale racchiude il significato profondo che da sempre le grandi religioni riservano al riposo settimanale e che la tradizione biblica racchiude nel terzo comandamento. Inoltre, è curioso notare come tra le dieci Parole ce ne sia una che ci ordina di riposare e nessuna che ci comanda di lavorare. Eppure, nonostante sia un precetto che rientra a pieno titolo nelle due tavole consegnate a Mosè, non solo non viene rispettato, ma ci si giustifica per la sua sistematica trasgressione.
Non so se questa paura di fermarsi un giorno alla settimana nasca dal senso del dovere che ci porta a non privare i parrocchiani della nostra presenza o dal fascino del sentirci indispensabili. Il Covid-19 ci ha fatto toccare con mano che non siamo poi così indispensabili, ma ce ne siamo velocemente dimenticati. Anche quando siamo costretti a fermarci, per cause di forza maggiore, ci accorgiamo di non essere così fondamentali. Non trovare il tempo per fermarsi almeno un giorno alla settimana, o almeno mezza giornata, concretamente dimostra come nella nostra vita di presbiteri non ci sia molto spazio per il gratuito, per il dono, per la grazia, per l’agire di Dio. In fondo, per tutto ciò che predichiamo e su cui ci siamo giocati la vita. Nel non trovare mai del tempo per fermarci, viviamo qualcosa di paradossale che cerco di spiegare attraverso un esempio. Se un parroco mi dicesse che trasgredisce continuamente il settimo comandamento – non rubare – e che non riesce a trattenersi dal farlo in modo sistematico, anzi, mi confessasse che si sente in colpa quando non distrae fondi dalla parrocchia per sé, non c’è dubbio che gli suggerirei di farsi aiutare perché qui c’è un problema serio, forse anche qualcosa di patologico. Più che perdonate, dice Papa Francesco, questo tipo di persone avrebbero bisogno di farsi curare. Perché allora non si potrebbe dire lo stesso di chi sistematicamente trasgredisce il terzo comandamento? Invece noi ci sentiamo in colpa se ci prendiamo un giorno alla settimana per rigeneraci. Siamo afflitti per aver rispettato e messo in pratica un comandamento. E se applicassimo lo stesso principio per il sesto comandamento cosa accadrebbe? Concludo con una citazione: «Il popolo ebraico aveva potuto sopravvivere senza l’esistenza del tempio (Patronato? Scuola dell’infanzia? Campiscuola? Sagra? Grest?, ndr), ma non avrebbe potuto reggere senza l’osservanza dello shabbat» (Benjamin Gross, Un momento di eternità, 2018, Edb, pp. 208, euro 19,50). Certamente un parroco sopravvive anche senza fermarsi, ma noi siamo chiamati a vivere. I giovani questo l’hanno compreso bene. Infatti, i nostri seminari sono vuoti. Le cause sono molte, tra queste inserirei anche il fatto che i giovani vorrebbero incontrare uomini di Dio che vivono con gioia il loro ministero e non solo preti che cercano di sopravvivere.
don Giorgio Bozza
docente di Teologia Morale alla Facoltà Teologica del Triveneto e parroco di Ronchi di Casalserugo