Giovanni Scifoni: “Per San Francesco la politica è il contrario del possesso”
"Per San Francesco la politica è una cosa buona, ed è una cosa difficilissima, perché ha bisogno di tantissima pazienza, della disponibilità ad accettare chi non la pensa come te, di fare compromessi, di rivedere continuamente le proprie idee alla luce di quelle degli altri. A volte, la politica richiede perfino di essere contraddittori, perché la fedeltà pedissequa alla propria idea può impedire la formazione del processo democratico”. Giovanni Scifoni spiega così al Sir il legame tra il suo spettacolo "Fra'", rappresentato al Teatro Verdi di Trieste per i 1.200 delegati, e il tema della 50ª Settimana sociale dei cattolici in Italia, che si è conclusa oggi
(Trieste) “Francesco è stato raccontato in ogni modo, e ognuno lo ha raccontato a modo suo. Un vero e proprio arcipelago di rappresentazioni. Il mio è uno spettacolo sulla vanitas”. Giovanni Scifoni, perfettamente a suo agio fra le quinte del Teatro Verdi di Trieste, ci regala un po’ del suo prezioso tempo prima di entrare in scena per “Fra’” – il monologo su San Francesco d’Assisi da lui scritto e interpretato, con la regia di Francesco Ferdinando Brandi, che ha fatto il giro dell’Italia mietendo ovunque un grandissimo successo di pubblico – per narrarci i motivi della scelta di confrontarsi con la “superstar” del Medioevo, su cui sono stati scritti decine di migliaia di testi e confezionate innumerevoli opere di spettacolo. “Certamente non sarà un Francesco ‘eretico’ per la platea della Settimana sociale”, ci dice ironicamente: “i delegati conoscono benissimo la sua storia e rappresentarla qui mi fa sentire tranquillo di confidare in un pubblico di appassionati del genere”. E così è stato, con applausi prolungati a scena aperta a fine rappresentazione. Il monologo di Scifoni, orchestrato con le laudi medievali e gli strumenti antichi di Luciano di Giandomenico, Maurizio Picchiò e Stefano Carloncelli, si interroga sull’enorme potere persuasivo che genera su noi contemporanei la figura “pop” di Francesco, e percorre la vita del poverello di Assisi e il suo sforzo ossessivo di raccontare il mistero di Dio in ogni forma, fino al logoramento fisico che lo porterà alla morte.
Cosa significa che questo è uno spettacolo sulla “vanitas”?
Francesco era ossessionato dalla ‘vanitas’, aveva un ego smisurato, gli piaceva tanto il successo. Era bruttino, sappiamo che era basso e aveva orecchie molto grandi, ma compensava con la simpatia, con la capacità di far ridere. Sapeva cantare e ballare, quello che lo rendeva speciale era il fatto di essere un artista – un “perfomer” diremmo oggi – forse il più grande della storia. Basti pensare alle sue prediche, dei veri e propri capolavori folli e visionari che potremmo assimilare a performance di teatro contemporaneo. Giocava con gli elementi della natura, improvvisava in francese, lingua materna della madre, citando a memoria brani dalle Chanson de geste e stravolgendone il senso. Utilizzava il corpo, il nudo, perfino la propria malattia, il dolore fisico e il mutismo. 800 anni fa ha allestito il primo presepe a Greccio, la sua più geniale e copiata invenzione. Nello stesso tempo, era ossessionato dai soldi, odiava il denaro, gli faceva così schifo da provocargli reazioni sconsiderate e portarlo ad azioni folli.
E’ in questa “radicalità” il fascino della figura di Francesco?
Sicuramente questa radicalità estrema è uno dei tratti che più mi ha affascinato della sua figura spingendomi poi ad interpretarla. Anche a me piace tanto il successo e vorrei sempre avere il teatro pieno. L’ego smisurato è uno dei demoni da cui quotidianamente voglio scappare. La radicalità in Francesco è assenza totale di superficialità, senza indulgenza sulle proprie debolezze. Questa radicalità ‘dritta’, senza ripensamenti, mi ricorda Picasso quando ha dipinto il ritratto di Stravinsky, senza mai staccare il tratto di pennello dal la tela.
Cosa c’entra Francesco con la democrazia, tema di questa Settimana sociale?
Democrazia è partecipazione, e Francesco ha partecipato alla vita politica del suo tempo, è andato a Gerusalemme, cercando addirittura di convertire il Sultano: se ci fosse riuscito, anche la storia del nostro tempo sarebbe stata senz’altro diversa. Ma quello che è democratico in Francesco è soprattutto la preoccupazione per il bene comune, che dovrebbe essere al centro di ogni agire autenticamente democratico. “Se io possiedo qualcosa, devvo possedere anche le armi per difendere quello che ho”, diceva Francesco, passato lui stesso con la sua stessa vita dal possedere al condividere. La partecipazione democratica è considerare le cose che abbiamo un bene per tutti, e se è per tutti dobbiamo difenderla tutti insieme: per Francesco la democrazia è il contrario del possesso. I frati non dovevano possedere niente, ma non perché il santo di Assisi amasse la miseria: aveva un buon rapporto col cibo, sapeva goderne in letizia, ma per Francesco la democrazia è il contrario del possesso. Non possedere, godere di ciò che il creato ha da offrirci, perché qualunque cosa del creato è buona, come recita il Cantico delle creature composto prima di morire: questo è l’itinerario perorso e proposto da Francesco e il senso vero del suo messaggio. Che arriva a fargli chiamare “sorella” perfino la morte, compagna di ogni giorno della nostra vita. Anche la politica, dunque, secondo Francesco è una cosa buona, ed è una cosa difficilissima, perché ha bisogno di tantissima pazienza, della disponibilità ad accettare chi non la pensa come te, di fare compromessi, di rivedere continuamente le proprie idee alla luce di quelle degli altri. A volte, la politica richiede perfino di essere contraddittorii, perché la fedeltà pedissequa alla propria idea può impedire la formazione del processo democratico”.