Comboniane a Gerusalemme: sorelle dei beduini, dalla parte degli ultimi
La comunità delle suore Comboniane presente a Gerusalemme Est opera quotidianamente a fianco delle popolazioni beduine che vivono nel Deserto di Giuda, nella totale precarietà, senza diritti, in povertà estrema. Sono tante le realtà israeliane e internazionali che le supportano in quest’opera di accompagnamento fraterno e nella creazione di quei ponti che oggi sembrano in pericolo. Dopo il 7 ottobre la vita di tutti appare più complicata
Hanno scelto di stare di qua e di là dal muro, le suore missionarie Comboniane che vivono a Gerusalemme Est, nel quartiere che sorge sull’antica Betania. Con la barriera che Israele ha costruito durante la seconda Intifada, isolando così i Territori palestinesi occupati e inglobando dalla propria parte molte aree, la casa delle religiose si è venuta a trovare proprio sulla traiettoria del muro, ma l’ingresso è rimasto dalla parte d’Israele. E così le missionarie non si sono perse d’animo. Come rimanere a fianco dei loro vicini di casa e di quartiere, che fino a quel momento avevano interagito con loro, ma che adesso si trovavano dall’altra parte della barriera di separazione ed erano irraggiungibili? Non avrebbero certamente potuto percorrere 30 chilometri al giorno e attraversare per due volte il check point di Betfage per fare quei 50 metri che le separavano dall’altra parte del muro. Ecco la soluzione: aprire una comunità anche al di là della barriera di separazione, ad Al-Azariyah, dove in un appartamento vive un piccolo nucleo di suore Comboniane, oggi tre, impegnate a tempo pieno con le comunità beduine che abitano nel deserto di Giuda, tra Gerusalemme e Gerico.
Maggiore diffidenza. Suor Expedita Pérez Leon è una di loro. È qui da due anni, dopo aver operato in Sudan, Egitto e Turchia. Ma dal 7 ottobre scorso, giorno dell’abominevole attacco di Hamas nel Sud di Israele, per motivi di sicurezza lei e le sue consorelle si sono ricongiunte con il resto della comunità religiosa nella parte israeliana. “Purtroppo moltissime cose sono cambiate da quella data. Le restrizioni e limitazioni che normalmente già vigevano in West Bank (altro nome per la Cisgiordania, cioè i Territori palestinesi occupati militarmente da Israele sin dal 1967, ndr) sono aumentate a dismisura: c’è una sorta di coprifuoco, per cui la popolazione araba non può uscire dalle 17 del pomeriggio alle 7 di mattina; alcune strade asfaltate utilizzate dai coloni israeliani per raggiungere i loro insediamenti non possono essere usate da nessun altro e ciò costringe a giri lunghissimi nel deserto, solo per riuscire a raggiungere i villaggi dove comprare qualcosa da mangiare, o per andare a scuola e all’università”.
“È un periodo molto difficile, dove le ingiustizie stanno aumentando anche in Cisgiordania, non solo in Gaza”.
Suor Expedita racconta con amarezza i risvolti di una guerra che ha provocato la “rottura dei ponti che si erano costruiti negli anni con tanti amici, cristiani, musulmani, ebrei, palestinesi, israeliani. Rimane una minima speranza, ma da ambedue le parti è cresciuta la diffidenza verso l’altro, il forte timore, vicendevole, di essere attaccati gli uni dagli altri: questo è stato scatenato con il 7 ottobre, una paura matta di chi è diverso da me”.
Rispettare i diritti. Suor Expedita questi ponti di collaborazione, aiuto reciproco, sostegno per vedere rispettati i diritti basilari spesso violati da un’occupazione ingiusta, li conosce molto bene perché ha contribuito (e ancora contribuisce) a costruirli. Nella sua opera quotidiana, infatti, garantisce una presenza costante nei 14 villaggi beduini della zona, insieme alle sue consorelle, suor Cecilia Sierra Salcido e suor Maria Lourdes Garcia Grande. A loro si unisce anche un’altra religiosa, infermiera, suor Julie Hurtado, della Presentazione di Maria, che arriva da Betlemme. Dal lunedì al giovedì, e poi anche il sabato, visitano le comunità, fanno sosta nei cinque asili che le missionarie hanno aperto per i bambini beduini, tengono corsi di inglese e di manualità per le donne, visitano le famiglie con i malati.E il giorno dopo ricominciano con altri villaggi, in modo che nessuna delle 14 comunità beduine rimanga indietro.
Se è vero che in prima linea, quotidianamente, sono le Comboniane a percorrere chilometri nel deserto con il loro fuoristrada, spesso passando accanto agli insediamenti dei coloni ebrei che sovrastano i villaggi palestinesi, è anche vero che non sono sole in quest’opera di accompagnamento fraterno e custodia preziosa: sono tante, infatti, le realtà israeliane che le supportano e che finora hanno contribuito a creare quei ponti che oggi sembrano in pericolo.
Costruttori di pace. Tra queste, i Medici per i diritti umani, associazione israeliana che garantisce l’assistenza sanitaria a chi non ce l’ha, Machsom Watch, organizzazione che presenzia ai check point (in ebraico machsom) per sorvegliare e denunciare le violazioni dei diritti umani. Poi ci sono le “Donne del mare”, che ogni estate accompagnano una sessantina di mamme e bambini beduini sulle spiagge, un gruppo di volontari ebrei messianici (cioè che credono in Gesù come Messia) che hanno organizzato due corsi di ebraico e due di inglese in altrettanti villaggi. C’è anche il gruppo Le Sisters composto da donne musulmane, ebree e da suore cattoliche, che periodicamente si incontrano, si confrontano e vivono un momento di preghiera e convivialità. Ma coloro che hanno gettato le fondamenta del ponte di vicinanza, familiarità e assistenza tra le Comboniane e i beduini della zona, sono i Rabbini per i diritti umani. “Furono proprio loro a chiedere a noi suore di occuparci delle comunità locali – racconta suor Expedita – in particolar modo con l’apertura di scuole e asili per i bambini e con iniziative per la promozione delle donne.
Da quel momento l’associazione dei Rabbini per i diritti umani ci ha aiutato moltissimo economicamente e anche la Ong Vento di Terra ha costruito la prima scuola a Khan Al-Ahmar.
C’è da sapere, però, che su questi villaggi pende da anni un ordine di demolizione da parte dello Stato ebraico, che fortunatamente viene rinviato periodicamente grazie anche alle manifestazioni di cittadini israeliani che lottano per i diritti umani. D’altro canto, però, non è possibile costruire nessun nuovo edificio, neppure una capanna, perché subito arrivano i bulldozer dell’esercito e la demoliscono. E così i beduini sono costretti a vivere in condizioni di precarietà totale”.
Volontari italiani. I sostenitori dell’opera delle missionarie sono tanti. Anche molti volontari italiani che hanno partecipato alla realizzazione dei campi estivi per i bambini dei 14 villaggi. E gruppi di studentesse universitarie spagnole che la scorsa estate hanno permesso di organizzare giochi, attività manuali, dinamiche, ogni mattina nelle varie comunità beduine.
Mille alberi. Con il sostegno di benefattori, recentemente è partito il progetto “Il deserto fiorirà”. “Confidando nella Provvidenza – prosegue la missionaria – abbiamo piantato mille alberi tra bouganville e limoni in tutti i villaggi beduini. Ogni famiglia adesso ha una piccola pianta da far crescere, perché presto porti ombra, colore, bellezza e frutti nei villaggi”. Ma le missionarie non si sono accontentate: a gennaio, se questa guerra finirà, metteranno a dimora altri mille alberi, stavolta olivi e aranci. Perché proprio quando tutto sembra cancellato, è allora che bisogna osare con coraggio. Le missionarie lo sanno bene e non si stancano mai di lavorare per la pace in questa terra così santa.
Chiara Pellicci*
*redazione Popoli e Missione